Che cos’è, come funziona, quali sono le possibili applicazioni terapeutiche? Dopo il live sul profilo Instagram di Fondazione Telethon, continuiamo il dialogo sull’argomento con la giornalista scientifica Anna Meldolesi.
Forbici molecolari, cassetta degli attrezzi del Dna, cursore di Word… sono state usate molte metafore per descrivere Crispr, la più celebrata e famosa tra le tecniche di editing genomico, quelle tecniche che permettono di intervenire in modo molto preciso su una sequenza desiderata di Dna. Ogni metafora racconta qualcosa di questa tecnica che, nata solo pochi anni fa, ha conquistato subito i ricercatori di tutto il mondo, per la facilità e la versatilità con la quale può essere impiegata sia per la ricerca di base sia per applicazioni terapeutiche. Ne abbiamo parlato l’8 marzo scorso sul nostro canale Instagram con la giornalista scientifica Anna Meldolesi, che su Crispr ha scritto un libro, “E l’uomo creò l’uomo” (Bollati Boringhieri), e cura un blog, CRISPeR-mania.
Partiamo da lei: perché tanta passione per Crispr?
«Mi sono sempre occupata di genetica e biotecnologie: credo fosse inevitabile l’entusiasmo per questa tecnica che ha impresso un’accelerazione pazzesca al mondo biotech. Crispr consente di fare cose che prima non si potevano fare, o di fare più facilmente cose che prima erano difficili, laboriose, alla portata di pochi. Oggi, un genetista con Crispr in mano è come un ragazzino in un negozio di dolciumi: gli si schiudono davanti tantissime possibilità».
È arrivato il momento di capire che cos’è Crispr…
«È un complesso di molecole con due ingredienti di base: una proteina capace di tagliare il Dna e una molecola di Rna capace di riconoscere sequenze specifiche di Dna. Questa molecola, chiamata “guida”, dice al complesso dove deve andare, cioè verso quale tratto di Dna deve dirigersi. Variando la guida i ricercatori possono intervenire proprio dove desiderano, cioè modificare proprio un certo tratto di Dna e non un altro. Per modificare intendiamo tagliare il Dna, correggere una lettera della sua sequenza, sostituire una sequenza con un’altra. Inoltre, agli ingredienti di base di Crispr si possono aggiungere altri “pezzi” (altre molecole) che permettono di fare cose in più, come accendere o spegnere geni. Per questo considero un po’ riduttiva la metafora iniziale di “forbici molecolari”. Si preferisce parlare di cassetta degli attrezzi o utilizzare metafore di tipo informatico: possiamo pensare a Crispr come al cursore che, quando scriviamo un documento al computer, ci permette di posizionarci nel punto giusto del testo o alla funzione “trova e sostituisci” di Word».
Dunque, Crispr è uno strumento biotecnologico per modificare in modo mirato il Dna. L’abbiamo inventato noi?
«No: è uno strumento dell’evoluzione a cui ricercatori e ricercatrici si sono ispirati per ottenere uno strumento di laboratorio. Il “modello” naturale si è sviluppato nei batteri, che lo utilizzano per riconoscere e distruggere il materiale genetico di virus pericolosi per i batteri stessi».
Hai parlato di ricercatrici. Qual è stato il ruolo delle donne nella scoperta di Crispr e nella sua successiva evoluzione biotecnologica?
«Lo strumento di cui tanto parliamo oggi è nato nel 2012 grazie a un articolo scientifico pubblicato sulla rivista “Science” da due gruppi di ricerca guidati da due donne: la biochimica americana Jennifer Doudna e la microbiologa francese Emmanuelle Charpentier, che allora lavorava tra Austria e Svezia e oggi lavora in Germania. La scienza non è mai fatta da poche persone, ma loro sono state le prime ad avere l’intuizione che un particolare sistema di difesa dei batteri contro i virus potesse essere trasformato in uno strumento biotech.
Un’intuizione che è stata premiata con il premio Nobel per la chimica, assegnato a Doudna e Charpentier nel 2020. Ma l’ambito della ricerca su Crispr è molto frequentato da ricercatrici brillanti, forse anche per una sorta di “effetto del fondatore”, un’influenza più o meno indiretta esercitata dal fatto che sia stato inaugurato proprio da due donne. Solo per citare un esempio, sono state due giovani ricercatrici, la californiana Alexis Komor e l’italo-americana Nicole Gaudelli, a mettere a punto una variante di Crispr chiamata editor o correttore di basi, che non taglia la molecola del Dna ma riesce a modificare direttamente l’identità chimica di singole lettere che la compongono».
Le applicazioni di Crispr sono possibili in molti campi, dalla diagnostica all’agricoltura. Quali sono, oggi, le sue potenzialità terapeutiche?
«Anzitutto dobbiamo ricordare che è un potentissimo strumento di ricerca perché permette di spegnere e accendere geni in modo non solo mirato, ma anche veloce ed economico. Questo permette di studiare più facilmente le basi genetiche delle malattie. Per esempio, nel campo della ricerca oncologica Crispr può essere utilizzata per comprendere meglio le reti di geni coinvolti nelle formazioni di metastasi o per individuare bersagli per nuovi farmaci. Passando all’ambito terapeutico, il primo campo di applicazione che viene in mente è sicuramente quello della terapia genica, la strategia che punta a correggere il difetto genetico responsabile di una certa malattia. Si dice addirittura che Crispr porti la terapia genica in una nuova era, tanto che si parla di Avanti Crispr e Dopo Crispr: prima dell’avvento di questa tecnica, si “paracadutava” il gene terapeutico nel genoma del ricevente senza poter scegliere con precisione il punto di atterraggio, con la possibilità che questo alterasse la funzione di geni importanti. Con Crispr, invece, l’atterraggio nel genoma può essere regolato in modo molto più fine, collocando il gene terapeutico nella sua posizione naturale. Oppure si può correggere direttamente l’alterazione genetica responsabile della malattia».
Ci sono già esempi di applicazioni cliniche?
«Sì, sono già in corso sperimentazioni cliniche (ovviamente non siamo ancora alla routine, ci vorranno anni per arrivarci). Il debutto sta avvenendo per malattie che hanno cause genetiche semplici e nelle quali le cellule da curare possono essere raggiunte facilmente, come le malattie del sangue, anemia falciforme e beta-talassemia in primis. In entrambi i casi, il primo approccio sperimentato non è stato la correzione diretta del difetto genetico responsabile delle malattie, ma lo sblocco con Crispr del gene dell’emoglobina fetale. Come dice il nome, questo gene è attivo durante la vita fetale ma negli adulti è spento perché la sua funzione viene svolta dal gene dell’emoglobina adulta. Se però questo è difettoso, come nell’anemia falciforme e nella talassemia, rimuovere il blocco del gene dell’emoglobina fetale fa in modo che questa sopperisca alla carenza o ai difetti dell’emoglobina adulta.
La sperimentazione è iniziata nel 2018 negli Usa e i primi pazienti trattati stanno bene. Da poco la sperimentazione è arrivata anche in Italia, all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Sono però partite anche altre sperimentazioni nelle quali Crispr viene utilizzata per correggere il difetto genetico. Questo è un esempio di terapia genica con Crispr ex vivo, nella quale le cellule difettose del paziente vengono prelevate, modificate con la terapia e reintrodotte nel paziente stesso. La sfida per il futuro, però, è puntare alle terapie in vivo, che prevedono l’iniezione diretta dell’apparato terapeutico nel paziente. È dell’estate scorsa la notizia dei risultati positivi di una prima sperimentazione in questo senso, per il trattamento dell’amiloidosi da transtiretina».
Come spesso accade, proprio per il fatto che sono dovute a difetti genetici puntuali, le malattie genetiche sono il banco di prova per testare nuovi approcci, un trampolino di lancio per applicare nuove tecnologie anche a malattie più diffuse. Ci sono prospettive in questo senso anche per Crispr?
«Certo: si sta lavorando sull’infezione da HIV (l’obiettivo è spegnere il recettore che permette al virus di entrare nelle cellule del sistema immunitario), sul diabete di tipo 1, sui tumori. E Crispr sta muovendo i primi passi anche nell’ambito degli xenotrapianti, il trapianto di organi animali nella specie umana».
In che modo può essere d’aiuto in questo ambito?
«Partiamo dalla premessa che la medicina dei trapianti soffre della cronica carenza di organi. Da qui l’idea di provare a utilizzare organi di animali, tipicamente di maiale, che per molti versi sono affini. È chiaro, però, che ci sono anche tante differenze che aumentano il rischio di rigetto: ecco, Crispr viene utilizzata per modificare alcune caratteristiche genetiche degli animali, in modo che possano ingannare il sistema immunitario umano riducendo il rischio di rigetto. Questo avanzamento, unito a quelli sul fronte dei farmaci immunosoppressori, hanno fatto ripartire le ricerche ed è dello scorso gennaio la notizia del primo trapianto in un essere umano di un cuore di maiale modificato con Crispr in corrispondenza di 10 geni differenti. Si trattava di un paziente in condizioni estremamente critiche già prima di questo intervento pionieristico ed è deceduto il 9 marzo, dopo due mesi. Non si sa ancora perché e quindi è presto per capire se ci saranno contraccolpi per il settore. In ogni caso, per evitare la nascita di false speranze, è sempre bene ricordare qualcosa che dice sempre Jennifer Doudna e cioè che con Crispr si può fare tanto, ma non si può fare tutto».
Qual è secondo te la sfida principale nel futuro di Crispr?
«C’è una sfida etica molto importante, che è quella dell’accessibilità, cioè riuscire a portare al maggior numero di pazienti possibile questa risposta alle loro esigenze che in laboratorio c’è e funziona. È vero che Crispr è una tecnica semplice e relativamente poco costosa, ma questo vale nel chiuso del laboratorio. Quando passiamo alla clinica complessità e costi aumentano moltissimo e quindi c’è molto lavoro da fare per far sì che le nuove terapie di cui abbiamo parlato possano essere disponibile a tutti, anche ai pazienti dei paesi a reddito medio-basso. La sfida è in parte tecnica, perché sicuramente le tecnologie possono essere affinate per rendere il trattamento più semplice (per esempio puntando sui trattamenti in vivo), ma è anche una sfida che riguarda le agenzie regolatorie, i sistemi sanitari nazionali, gli investimenti economici. Insomma, tutto quello che deve crescere attorno a una tecnologia perché questa esprimere nel mondo reale tutte le sue potenzialità».
A differenza di altre tecnologie, Crispr è entrata subito nell’immaginario pop… Che cosa ne pensi?
«Senza dubbio c’è stato un forte impatto culturale di Crispr, che ha fortemente innovato presso il grande pubblico l’immagine delle biotecnologie. È un impatto dipeso da molti fattori: le potenzialità della tecnica, ma anche l’approccio dei ricercatori e delle ricercatrici che da un lato hanno tentato di farne una tecnologia molto democratica e dall’altro hanno mantenuto un atteggiamento molto aperto al dialogo pubblico anche attraverso i social media. Tutti elementi di freschezza che si sono uniti al fatto che Crispr è arrivata nel momento dei meme, delle stampanti 3D, dei Ted Talk, di Netflix e porta con sé l’imprinting di tutti questi modi di comunicare».
Qualche esempio di contenuto pop su Crispr?
«Mi piace ricordare il rap Women in Crispr, ma le canzoni a tema sono molte. Poi citerei il documentario “Human Nature” e la docuserie “Unnatural Selection”, entrambi di Netflix».