In occasione dei 30 anni di Telethon Luigi Naldini, direttore dell’SR-Tiget, ripercorre la scommessa pioneristica delle terapie avanzate, partendo da virus come hiv per arrivare alla terapia genica.
Ci sono coincidenze che colpiscono l’immaginazione, soprattutto se guardate con l’occhio del presente: il 1990, anno che ha visto nascere la Fondazione Telethon, è lo stesso in cui per la prima volta un essere umano ha ricevuto una terapia all’epoca decisamente pionieristica, basata su un virus trasformato in vettore di materiale genetico.
La bambina, americana di origine indiana, si chiamava Ashanti da Silva e soffriva di una rara immunodeficienza che la rendeva indifesa di fronte alle più comuni infezioni: pur funzionando solo in parte, quell’intervento di terapia genica è stato la prima dimostrazione che “si poteva fare”. Nei trent’anni a seguire la Fondazione ha fatto della terapia genica uno dei pilastri della propria attività, credendoci fin dall’inizio al punto da dedicarle un intero istituto già nel 1995, all’interno dell’Ospedale San Raffaele di Milano.
A dirigere l’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) dal 2008 è Luigi Naldini, che alla trasformazione dei virus in farmaci di precisione ha dedicato buona parte della sua carriera scientifica. «In questo momento storico, in cui il mondo sta cercando di gestire l’emergenza sanitaria da Covid 19, pensare ai virus come strumenti terapeutici può suonare paradossale - commenta -. Tuttavia, studiare il comportamento dei virus alla ricerca di strategie per neutralizzarli può avere anche dei risvolti inaspettati e importanti: questo è il potere intrinseco della ricerca scientifica».
E lo sa bene Naldini, laureato in medicina all’Università di Torino nel 1983, negli stessi anni in cui un nuovo virus si affacciava sulla scena mondiale quale responsabile di una sindrome fino ad allora sconosciuta e implacabile nel distruggere il sistema immunitario: l’Aids. Intrapresa la carriera di ricercatore, negli anni successivi concentrerà il suo interesse proprio su quel nuovo virus così temuto.
LA SCOMMESSA «All’inizio degli anni Novanta la terapia genica non appariva più come una chimera, ma rimanevano tanti punti aperti: uno dei principali era trovare il vettore più adatto per trasferire geni in modo efficiente e stabile, anche nelle cellule che non si dividono come per esempio quelle nervose. Hiv aveva le caratteristiche giuste, perché appartiene alla famiglia dei retrovirus: il loro patrimonio genetico è a base di rna, proprio come il nuovo coronavirus, ma grazie a un corredo di enzimi del tutto speciale i retrovirus possono trasformarlo in una doppia elica di dna e integrarlo stabilmente in quello della cellula che hanno infettato. Un’ottima strategia per il virus che, una volta “accasato” nelle nostre cellule, può nel tempo fare copie di sé stesso senza soluzione di continuità. Questa caratteristica che rende così pericoloso hiv per il nostro organismo si è al contempo rivelata vincente in chiave di trasferimento di geni terapeutici. Mentre l’involucro virale si dissolve dopo l’ingresso nelle cellule, il suo carico genetico viene incorporato nel genoma della cellula dove produce beneficio terapeutico duraturo e sarà trasmesso alla sua progenie».
NEGLI STATES Durante un lungo periodo di studio negli Stati Uniti Naldini ha infatti studiato struttura e comportamento di hiv gomito a gomito con i colleghi impegnati nella ricerca di strategie per contrastarlo. Nel 1996 su Science ha firmato un articolo che dimostrava come quel virus potesse essere ingegnerizzato in modo da non potersi più replicare ma di poter comunque inserire il suo corredo genetico anche in cellule quiescenti. Un corredo che si poteva ingegnosamente sostituire con geni terapeutici, come quelli difettosi nelle malattie monogeniche. «Quel lavoro è stato indubbiamente uno spartiacque, ma il percorso successivo non è stato facile. Ci sono state battute d’arresto dovute ad applicazioni premature della terapia genica nell’uomo, oltre a resistenze culturali da parte della comunità scientifica stessa all’idea di impiegare vettori derivati da hiv per curare malattie umane. La Fondazione Telethon ha avuto la lungimiranza di crederci ed è per questo che dopo il mio definitivo rientro in Italia all’inizio del 2000 ho iniziato a collaborare con l’Istituto Telethon di Milano, allora diretto da Maria Grazia Roncarolo, per trasformare quei risultati in opportunità concrete di cura».
LA CONFERMA Gli anni successivi hanno confermato la bontà di quella prima intuizione: grazie al lavoro dei ricercatori dell’SR-Tiget i vettori lentivirali derivati da hiv sono stati via via perfezionati e studiati, fino all’impiego con successo in malattie genetiche come la leucodistrofia metacromatica, una gravissima patologia neurodegenerativa per cui non esisteva alcuna cura. Dopo dieci anni di sperimentazione clinica, alla fine nel 2019 è stata presentata alle autorità regolatorie europee la richiesta perché la terapia genica diventi un vero e proprio farmaco disponibile sul mercato: esattamente come già avvenuto per Strimvelis, la terapia genica messa a punto nei laboratori dell’istituto per l’Ada-Scid, la malattia di Ashanti Da Silva, che dal 2016 è un farmaco registrato. Inoltre, per altre tre malattie la terapia genica è in fase di sperimentazione clinica al SR-Tiget, per un totale complessivo di oltre 115 pazienti trattati ad oggi, venuti da tutto il mondo.
«Questi risultati così importanti sono il frutto di anni di ricerca, che ci ha permesso di comprendere e monitorare l’inserimento del vettore virale nel dna delle cellule bersaglio, ma anche come e quanto le cellule corrette con la terapia genica continuano a riprodursi nel tempo. Grazie a una sorta di “codice a barre” conferito dall’ingegnerizzazione genetica - continua il direttore dell’SR-Tiget - possiamo seguirle a una a una nel tempo e ottenere informazioni importanti sull’invecchiamento dei tessuti e viceversa sui meccanismi su cui intervenire per contrastarlo. Questi studi che hanno offerto una nuova speranza di vita a bambini affetti da malattie gravissime hanno al contempo allargato le nostre conoscenze di base, per esempio permettendoci di osservare per la prima volta in diretta una cellula staminale del sangue umana in attività, cosa che fino a quel momento era stata possibile soltanto nei modelli animali».
LE PROSPETTIVE Guardando al futuro, la medicina di precisione sembra occupare un posto sempre più rilevante nella salute umana: ogni anno cresce il numero di farmaci registrati, per diverse malattie. «Grazie agli studi pionieristici fatti sulle malattie genetiche si è acquisita la capacità di manipolare i virus anche per altri scopi. In campo oncologico, per esempio, sono già disponibili farmaci in cui il vettore virale veicola geni in grado di dirigere la risposta immunitaria contro le cellule tumorali. Nel caso dei vaccini, invece, questi costrutti possono essere sfruttati per trasferire gli antigeni, ovvero quelle porzioni dell’agente patogeno in grado di scatenare la risposta immunitaria contro un particolare agente infettivo: è fatto così il primo vaccino sviluppato contro l’Ebola e attualmente è anche uno degli approcci in fase di studio contro il nuovo coronavirus. La sfida principale adesso, è quella produttiva: ovvero come rendere sostenibile dal punto di vista economico e organizzativo la produzione su larga scala di questi farmaci così speciali, che richiedono competenze e infrastrutture del tutto nuove. Perché non poter accedere a terapie che hanno le potenzialità di curare all’origine una malattia è anche peggio di non avercela proprio la cura».
Articolo pubblicato sul Telethon Notizie di settembre 2020