Il programma «Malattie senza diagnosi» è nato per cercare di dare risposte a chi combatte ogni giorno contro una patologia senza nome.
Essere colpiti da una malattia genetica non ancora identificata, e quindi vivere nell’incertezza di come questa evolverà, e non poter sperare in una cura. È il dramma a cui vanno incontro centinaia di famiglie in Italia, alle quali però da ormai tre anni Fondazione Telethon cerca di dare delle risposte. Lo fa tramite il programma «Malattie senza diagnosi», un’iniziativa multicentrica in Italia che prevede la collaborazione e la condivisione di dati con altri programmi internazionali simili, per permettere ai genitori di non dover più combattere contro una malattia senza nome, capire il rischio di ricorrenza della malattia all’interno di una stessa famiglia, e intraprendere il primo, indispensabile step, verso la speranza di una cura.
Un programma che si è evoluto e espanso nel tempo. «L’unità di Napoli è tra le fondatrici dell’iniziativa, ma nel tempo si sono aggiunti altri centri clinici, al punto che adesso è un progetto che ormai copre tutto il territorio nazionale» racconta Nicola Brunetti-Pierri, ricercatore Telethon presso il Tigem di Pozzuoli e responsabile del programma per l’Azienda Ospedaliera Universitaria «Federico II» di Napoli. «Rispetto all’inizio - spiega - è molto più semplice per pazienti che si trovano in ogni parte d’Italia partecipare e fruire del progetto: abbiamo una copertura quasi capillare».
Un programma che in tre anni ha raccolto molti successi: «L’unità di Napoli ha contribuito con molti casi al progetto: 158 secondo un recente conteggio. 158 bambini in tre anni, ciascuno dei quali è entrato nel programma “Malattie senza diagnosi” solo dopo molti esami diagnostici non chiarificatori. In più della metà dei casi siamo riusciti, grazie al sequenziamento genetico, a raggiungere una diagnosi: un risultato significativo e importante, perché nessuno di questi casi è affatto semplice o banale».
Diagnosi di una
malattia genetica che molto spesso è difficile anche per malattie già note:
ne esistono oltre 6.000, e anche un singolo bravissimo specialista può fare
molta fatica a raggiungere una diagnosi. «I clinici di tutti i centri
che partecipano al programma ogni mese si riuniscono per una discussione
collegiale, in ciascuno candida i pazienti da ogni parte di Italia che vuole inserire
nel programma», spiega Brunetti-Pierri. «In questo modo è come se ogni
paziente, che normalmente ha già affrontato numerosi esami e tentativi di
diagnosi, venisse visitato ancora una volta da molti medici. Molto spesso
l’esperienza del clinico è importante per la diagnosi delle malattie rare, e in
alcuni casi è possibile raggiungere una diagnosi così. Se si verifica invece che
è impossibile ottenere la diagnosi con metodi più convenzionali, allora il
paziente accede al programma».
Una diagnosi impossibile perché spesso si tratta di casi quasi unici, fino a
quel momento ignoti alla scienza: «Solo
a Napoli abbiamo identificato tra le quattro e le sei nuove malattie genetiche,
prima totalmente sconosciute. Ciascuno
di questi casi è ultra-raro: è praticamente impossibile che in un singolo
centro io possa trovare due bambini con gli stessi sintomi, per chiarire il
legame tra mutazione e malattia. In questo senso sono molto importanti le
collaborazioni internazionali: in una pubblicazione recente abbiamo dovuto
connetterci con clinici da ogni parte del mondo, dal Brasile alla Germania alla
Cina, e mettendo insieme la storia clinica di 15 pazienti siamo riusciti a
capire che tutti questi pazienti erano affetti da una malattia genetica fino ad
allora mai identificata. Una malattia che ha smesso di essere sconosciuta
nell’agosto 2019».
Storie di successo che però non fanno altro che alimentare la determinazione di ricercatori come Brunetti-Pierri a fare ancora di più:
«Le ragioni per le quali quei casi possono essere irrisolti possono essere molte, spesso molto tecniche. Ma grazie a questo progetto di Telethon abbiamo dato molte risposte a molti pazienti, e non abbiamo alcuna intenzione di fermarci ancora».