Alla nascita, questa malattia non si palesa. Eppure è lì, scritta in un gene, e piano piano comincia a lasciare il segno, sia dentro che fuori, si chiama mucopolisaccaridosi di tipo VI (Mps6).
Una malattia rara tra le malattie rare: «In Italia ci sono solo 13 pazienti» sottolinea Alberto Auricchio, coordinatore del gruppo di ricerca del Tigem impegnato a mettere a punto nuove strategie terapeutiche per malattie del metabolismo. «Come, appunto, la mucopolisaccaridosi di tipo sei, che esordisce in età pediatrica fino a compromettere pesantemente la deambulazione, ma non solo. Oltre a colpire l’apparato scheletrico, causando deformità e dolori articolari, questa malattia colpisce infatti il cuore, per cui i pazienti vanno incontro a insufficienza cardiaca, il fegato e l’occhio. E alla lunga anche respirare diventa difficoltoso a causa di deformità della gabbia toracica».
A causarla è un gene che, se mutato, non produce una proteina (l’enzima arilsolfatasi-B) fondamentale affinché nelle cellule (nei lisosomi) non si accumuli una sostanza (chiamata dermatan-solfato) che progressivamente danneggia l’organismo. «La mutazione genetica - precisa Auricchio – impedisce all’enzima di funzionare come spazzino o ne determina l’assenza». Con la terapia enzimatica sostitutiva si cerca allora di colmare questa lacuna.
Disponibile in Italia dal 2006, si chiama così perché consiste nell’infusione periodica dell’enzima prodotto attraverso tecniche di ingegneria genetica. Una terapia che non cura ma rallenta la malattia.
La storia di questa malattia però cambiare grazie alla terapia genica sviluppata al Tigem, l’Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli (Napoli). «In pratica, in dieci anni di ricerca, abbiamo sviluppato un approccio meno invasivo, perché basterebbe un’unica somministrazione, finalizzata a fornire al paziente il gene corretto, in modo da ripristinare una volta per tutte la funzione dell’enzima ed evitare l’accumulo di sostanze tossiche», spiega Auricchio. A traghettare il gene ci pensa un virus terapeutico: un virus, cioè, reso innocuo ma ancora capace di trasferire materiale genetico. E così le cellule del fegato che ricevono il gene corretto diventano una fabbrica: producono l’enzima per poi dirottarlo nei vari organi.
Al momento tutto questo ha funzionato ed è risultato sicuro negli studi preclinici in laboratorio. «È partito uno studio clinico internazionale, al Policlinico Federico II di Napoli, che prevede il coinvolgimento di 8 pazienti sia italiani che stranieri con più di 4 anni di età» racconta Nicola Brunetti Pierri, docente di Pediatria all’ateneo partenopeo e ricercatore Tigem coordinatore dello studio clinico. Per la prima volta nel mondo viene sperimentato sui pazienti questo nuovo approccio che si prefigge di “correggere” l’errore genetico responsabile della malattia. «Primo obiettivo è verificare che sia sicuro ma, nel corso degli anni, vogliamo verificare anche che effettivamente una singola infusione possa essere efficace a lungo termine».
«Dopo anni di ricerca, passare dal bancone del laboratorio al letto del paziente è una fase cruciale del nostro lavoro di medici e ricercatori» aggiunge Auricchio che, seppur con la dovuta cautela, afferma: «l’idea di poter migliorare la vita delle persone che convivono con una malattia così invalidante credo sia una delle più alte aspirazioni che un medico possa avere». «Ci troviamo a condividere aspettative e timori dei pazienti e dei loro familiari tutto questo è un’ulteriore motivazione a continuare su questo fronte, con determinazione e dedizione» conclude Brunetti-Pierri.