Intervista a Ivana Trapani, che grazie a un importante finanziamento europeo disegnerà nuovi strumenti per consentire il trasferimento di geni di grosse dimensioni.
La terapia genica è oggi una realtà terapeutica per diverse malattie, genetiche e non, ma ci sono ancora degli ostacoli che ne limitano l’applicazione: superare uno di questi è l’obiettivo di Ivana Trapani, ricercatrice dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli che per farlo si è aggiudicata un prestigioso finanziamento da parte dello European Research Council, del valore di 1,5 milioni di euro.
In particolare, il suo progetto affronta il problema della capienza dei vettori adeno-associati (AAV), tra i più utilizzati per trasferire geni terapeutici, ma che non sono adatti a geni di grosse dimensioni come spesso sono quelli umani.
Questi piccoli virus, che non sono associati ad alcuna patologia umana, sono ormai uno strumento consolidato per fare terapia genica: attualmente ci sono sette farmaci di questo tipo approvati (tra cui quello per l’amaurosi congenita di Leber al cui sviluppo ha contribuito anche il Tigem, o quello per l’atrofia muscolare spinale) e decine in sperimentazione sull’uomo (tra cui la terapia genica per la mucopolisaccaridosi di tipo 6 messa a punto sempre al Tigem).
Tuttavia, la loro capienza limitata ne impedisce l’utilizzo nell’ambito di molte malattie genetiche: tra queste c’è per esempio la sindrome di Stargardt, una forma di cecità ereditaria su cui i ricercatori del Tigem lavorano da anni.
«Per ovviare a questo problema - spiega Ivana Trapani - abbiamo recentemente messo a punto una strategia che consente di “spezzare” le proteine terapeutiche in più frammenti, di dimensioni compatibili con la capacità di trasporto dei vettori. Per farlo ci siamo avvalsi di piccoli segmenti proteici derivati dai batteri, chiamati inteine: quando vengono fuse alle estremità dei frammenti di grosse proteine da trasportare con i vettori AAV, le inteine consentono il loro ricongiungimento, permettendo così la ricostituzione della proteina completa all’interno della cellula che vogliamo correggere. Per quanto molto utilizzati in ambito sperimentale, gli approcci basati sulle inteine presentano però ancora molti limiti in vista di una più ampia applicazione nell’uomo: grazie a questo progetto cercheremo di migliorare la tecnologia, per renderla più efficiente e sicura».
Il Tigem, in particolare il gruppo del neodirettore Alberto Auricchio, lavora da molti anni per aggirare l’ostacolo della limitata capienza dei vettori AAV e ha messo a punto ben due piattaforme (per maggiori dettagli leggi questa intervista).
Entrambe le piattaforme sono state acquisite da una spin-off dell’Istituto, AAVAntgarde Bio, che ha proprio l’obiettivo di portarle in clinica: la prima malattia su cui partirà a breve una sperimentazione è proprio una retinopatia ereditaria, la sindrome di Usher 1B, che è associata anche a sordità.
Tuttavia, come spiega Ivana Trapani, «non tutti i geni sono “impacchettabili” allo stesso modo e queste piattaforme, che al momento sono le uniche disponibili per il traporto di geni di grandi dimensioni, non funzionano sempre. Con il nostro progetto vogliamo lavorare sullo sviluppo di piattaforme il più possibile universali, adatte a funzionare per tutti i tipi di geni: basti pensare che sono tantissimi i geni-malattia su cui attualmente la terapia genica non è applicabile a causa delle loro dimensioni. Come modello useremo quello che conosciamo meglio, cioè le malattie ereditarie della retina: valuteremo quindi le potenzialità di queste piattaforme innovative nell’ambito di approcci di terapia genica ed editing genetico sia in modelli animali di queste malattie, sia in organoidi di retina umana, cioè organi in miniatura ottenuti in vitro a partire da cellule umane».
Grazie a questo progetto la terapia genica potrebbe diventare un’opportunità terapeutica per molte malattie genetiche per cui adesso è preclusa: un obiettivo ambizioso supportato da dati molto solidi raccolti negli anni, riconosciuti dall’ERC con questo importante finanziamento. «Quando mi è arrivata la comunicazione che avevo vinto ho dovuto leggerla due volte per essere sicura di aver capito bene» ricorda Ivana Trapani, emozionata.
«È stata una grandissima soddisfazione - continua - che mi ha ripagato di tanti sacrifici. E poi temevo di essere penalizzata dal fatto che finora la mia carriera si è svolta quasi interamente in Italia, senza periodi lunghi di formazione e lavoro all’estero. Il mio percorso è stato determinato dalla opportunità di lavorare in un Istituto di eccellenza, con una forte proiezione internazionale e sotto la guida di uno degli scienziati più affermati nel campo della terapia genica».
Un Istituto speciale: «In pochi posti al mondo avrei avuto la possibilità di seguire le idee nate e sviluppate in laboratorio fino alla trasformazione in terapie applicate sui pazienti, come mi è successo al Tigem. Cosa potevo chiedere di più? Un percorso di carriera che è andato di pari passo con la costruzione e crescita della mia famiglia, ho due bambini ora, ed eccomi qui!».
E adesso Ivana Trapani guarda al futuro: «Con questo progetto, avrò la possibilità di fare quello che nel mio lavora mi appassiona di più: disegnare nuove terapie, trovare i dettagli per ottimizzare quelle che abbiamo e renderle più efficaci. Insieme al mio gruppo, che naturalmente ha festeggiato con me ed è pronto a questa nuova emozionante sfida!».