Spiega Diego di Bernardo, ricercatore del Tigem: «Abbiamo costruito una banca dati di circa 2.000 molecole che possiamo interrogare per capire se qualcuno dei composti presenti è in grado di interagire in modo specifico con un bersaglio molecolare».
A volte la soluzione a un problema non è qualcosa di nuovo, ma va soltanto cercata in quello che già si conosce adottando un altro punto di vista: è questo il principio che guida il repurposing, o “riposizionamento”, una strategia di ricerca farmacologica che si basa sull’individuazione di nuove indicazioni terapeutiche per farmaci già in uso clinico o molecole già precedentemente studiate per altre patologie.
Tra i casi più noti in questo senso ci sono la cardioaspirina e il sildenafil: nel primo caso uno degli antinfiammatori più noti e di vecchia data si è rivelato anche un ottimo fluidificante del sangue, quando somministrato a basse dosi, che aiuta a prevenire la formazione di trombi. Il secondo, meglio conosciuto con il nome commerciale di Viagra, era stato inizialmente studiato come farmaco antipertensivo, ma in un secondo momento le sue capacità di vasodilatazione si sono rilevate molto più efficaci nel trattamento della disfunzione erettile.
Anche nel campo delle malattie genetiche rare il repurposing viene molto utilizzato: molecole già in uso da anni per patologie comuni, oppure altre “abbandonate” perché poco promettenti per l’indicazione per cui erano state inizialmente proposte, possono invece rivelarsi efficaci nel caso di malattie rare e prive fino a quel momento di un’opzione terapeutica. All’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli, Diego di Bernardo se ne occupa da oltre dieci anni, forte della sua solida esperienza in biologia computazionale: «Abbiamo costruito una banca dati di circa 2.000 molecole, sia farmaci in uso sia molecole ancora non approvate in ambito clinico. Di volta in volta possiamo interrogarla per capire se qualcuno dei composti presenti è in grado di interagire in modo specifico con un bersaglio molecolare individuato grazie alla ricerca nei nostri laboratori, per esempio una proteina responsabile di una malattia genetica. Una volta selezionati, i potenziali candidati vanno poi testati su modelli cellulari e animali della malattia, per valutare se valga la pena andare avanti su quella strada. La biologia computazionale permette quindi di fare una grossa scrematura a monte e aumentare così l’efficienza degli esperimenti, evitando quelli già fallimentari in partenza. In questi anni, in collaborazione con Nicola Brunetti-Pierri, grazie a questo approccio abbiamo per esempio trovato dei potenziali farmaci per una rara malattia metabolica, l’iperossaluria primaria di tipo 1, in grado di diminuire l’accumulo dell’ossalato causato dalla carenza di un enzima epatico non funzionante in questi pazienti: prossimo passo sarà verificarne l’efficacia con una sperimentazione clinica. Passando invece a un disturbo molto comune, la colite, abbiamo individuato un fitoterapico estratto dal pomodoro, il fisetin, capace di aumentare l’espressione di specifici geni coinvolti: i primi esperimenti effettuati nel modello animale hanno dato risultati positivi».
di Bernardo e il suo team hanno inoltre messo le proprie competenze a disposizione dell’emergenza Covid 19, riadattando il loro algoritmo per andare questa volta alla ricerca di nuove molecole attive contro il nuovo coronavirus. «Come tutti i virus, anche SarsCoV-2 utilizza un meccanismo “chiave-serratura” per entrare nelle sue cellule bersaglio. Sulla sua superficie ha una proteina, chiamata spike, capace di legarsi in modo specifico a un recettore, ACE2, presente sulla superficie di molte cellule umane, in particolare quelle dell’apparato respiratorio. Inoltre, per entrare efficacemente il virus ha bisogno anche dell’enzima TMPRSS2, che serve invece per tagliare una particolare porzione della sua proteina spike. Abbiamo quindi provato a cercare nel nostro database dei composti capaci di diminuire il livello di ACE2 e TMPRSS2, ed anche di altre proteine utilizzate dal virus per replicarsi, così da contrastare l’ingresso e la replicazione virale. Abbiamo individuato una trentina di potenziali candidati e prossimamente li testeremo in cellule umane grazie anche all’esperienza maturata negli anni da un altro gruppo del Tigem, quello di Luis Galietta, nel campo di una malattia genetica che colpisce anche i polmoni come la fibrosi cistica». Tra i più grossi vantaggi del repurposing c’è la possibilità di saltare i test di sicurezza, laddove ovviamente il farmaco sia già in uso, e di accorciare così notevolmente i tempi della sperimentazione clinica: si pensi, per esempio, al caso del bumetanide, un diuretico impiegato da moltissimi anni che si sta rivelando potenzialmente efficace nel ridurre alcuni dei difetti cognitivi associati alla sindrome di Down e all’autismo (si veda a tal proposito le interviste a Laura Cancedda dell’Istituto italiano di tecnologia e a Enrico Cherubini della Sissa di Trieste). «Anche nel caso del nuovo coronavirus - commenta di Bernardo - l’urgenza ha fatto sì che tutti si concentrassero su farmaci già in uso, per velocizzarne la messa a disposizione nel caso se ne dimostrasse l’efficacia. Bisogna tener presente che nessun farmaco “fa una cosa sola”, spesso meccanismi secondari meno noti possono venire alla luce per esempio quando si aumentano le dosi. Quando la somministrazione è di durata limitata, come nel caso di un’infezione virale, il problema non si pone; diverso invece quando il farmaco va preso per tutta la vita. Una volta compreso il meccanismo d’azione, poi, è anche possibile modificare chimicamente la molecola e adattarla meglio allo scopo, ma a quel punto è necessario rifare i test di sicurezza come di fronte a un farmaco nuovo. Questo richiede tempo, che in un’emergenza come questa è davvero tiranno. Ecco perché è importante lavorare lungo due binari paralleli: cercare molecole efficaci tra quelle disponibili per un uso immediato e con il tempo affinare le armi per il futuro».