Dallo studio di una proteina importante per il funzionamento del cervello un possibile approccio terapeutico per la sindrome di Rett.
L’ansia è utile o dannosa? D’istinto risponderemmo che fa male, eppure in situazioni di pericolo una giusta dose può aiutarci a stare all’erta e ad agire per salvarci. Viceversa, non provare per nulla questa sensazione potrebbe ridurre la capacità di percepire un potenziale pericolo. Quello dell’ansia è un tipico esempio di reazione che di per sé non è dannosa, ma che può diventarlo quando si altera un certo equilibrio nei “messaggi” che il cervello acquisisce e registra dall’ambiente.
Un’alterazione di questo equilibrio può essere alla base di numerose malattie, anche genetiche: ne abbiamo parlato con Elena Battaglioli del dipartimento di Biotecnologie mediche e medicina traslazionale dell’Università di Milano, che studia i meccanismi con cui si sviluppa il cervello umano. Da oltre vent’anni si occupa di una proteina importante per il funzionamento delle cellule nervose, che negli ultimi anni ha anche catturato l’interesse dell’industria come potenziale bersaglio farmacologico nel campo dei tumori. Ma Elena Battaglioli, che la conosce molto bene, ha ipotizzato che agire su questa proteina possa migliorare i sintomi anche di una grave malattia neurologica di origine genetica, la sindrome di Rett, di cui ottobre è il mese di sensibilizzazione. Un’ipotesi che è stata giudicata interessante anche dalla Commissione medico-scientifica di Fondazione Telethon, che all’inizio del 2021 ha valutato il suo progetto tra quelli meritevoli di finanziamento.
«Già nel 2000 mi sono imbattuta nella proteina LSD1, un enzima che si è rivelato sensibile a stimoli esterni come traumi o stress emotivi, di cui rimane una traccia molecolare che viene mantenuta nel tempo» spiega Battaglioli. «Ogni individuo - continua - è infatti il risultato non solo dei suoi geni, ma anche dell’ambiente in cui vive: basti pensare ai gemelli omozigoti, che pur avendo un patrimonio genetico identico alla nascita, possono diventare anche molto diversi per effetto delle esperienze e dell’ambiente in cui vivono. Il cervello è l’organo più sensibile agli stimoli esterni, che vengono registrati anche grazie a modifiche definite “epigenetiche”: a cambiare non è il dna, ma il modo in cui viene “letto” dalla cellula. Se paragoniamo il dna a un libro, le modifiche epigenetiche sono le sottolineature, le note, i segnalibri che possono modificare il percorso di lettura».
Presente in tutti i tessuti, LSD1 funziona come un freno a mano per la macchina cellulare, limitando al momento opportuno l’accensione dei geni coinvolti nella risposta agli stimoli ambientali. Si è visto inoltre che la sua attività aumenta nel caso di alcuni tumori del sangue, tanto da promuovere l’interesse industriale a individuare farmaci antitumorali basati proprio sull’inibizione di questa proteina.
Dal punto di vista evolutivo, LSD1 è una proteina generalmente molto conservata: ce l’hanno anche organismi molto semplici come il lievito e gli invertebrati. Inoltre, il gene che la codifica è uno dei pochissimi – l’1% del totale – che variano poco anche all’interno della specie umana: questo suggerisce che la sua funzione sia particolarmente sofisticata e necessaria. Nel cervello umano esiste però una variante di LSD1 che è tipica soltanto delle cellule nervose dei mammiferi. A renderla diversa è una porzione piccolissima: degli oltre mille mattoncini, o aminoacidi, che la compongono, la variante cerebrale ne possiede soltanto 4 in più. Questa minima differenza le conferisce la capacità di allentare il “freno” esercitato dalla versione ubiquitaria della proteina. In condizioni normali, nel cervello è presente la stessa quantità delle due forme. Un’alterazione di questo equilibrio può avere però conseguenze negative: è proprio quello che avviene nella sindrome di Rett, dove la versione cerebrale della proteina prevale su quella ubiquitaria.
«La nostra ipotesi – spiega Battaglioli – è che questo squilibrio sia alla base di manifestazioni neurologiche come le crisi epilettiche farmaco-resistenti e l’eccesso di ansia tipiche della sindrome di Rett, ma anche di altre forme rare di epilessia genetica. Vogliamo quindi studiare se riducendo la sintesi della variante cerebrale di LSD1 si possano migliorare questi sintomi, particolarmente invalidanti. Per farlo useremo degli oligonucleotidi antisenso, brevi frammenti di dna che possono mascherare quella piccola porzione che rende diverse le due proteine: se tale approccio si rivelerà promettente, si potrà passare a una fase più traslazionale e prossima alla sperimentazione clinica. Peraltro, il fatto che LSD1 sia già nel mirino come bersaglio farmacologico in un ambito di rilievo come l’oncologia potrebbe facilitare il processo. Tuttavia, prima bisogna dimostrare la validità della ipotesi ed è proprio grazie al finanziamento Telethon che intendiamo farlo. Il potere della ricerca di base è proprio quello di stimolare idee nuove, collegamenti inaspettati e impossibili da immaginare in partenza. Per questo è importante sostenerla in modo continuativo, come fa Fondazione Telethon».