Quanti sono cento miliardi? È come tredici volte la popolazione mondiale o il numero di stelle della nostra galassia, ma è anche il numero di cellule del nostro cervello. Studiarne il funzionamento è una sfida notevole e per uno scienziato non può prescindere dall’analisi dei meccanismi alla base delle disabilità intellettive: quell’insieme di condizioni in cui, per qualche motivo, un individuo presenta delle difficoltà nelle f u n z i o n i cognitive e relazionali. «Oggi in Occidente fino al tre per cento della popolazione presenta una qualche forma di disabilità intellettiva» spiega Patrizia D’Adamo, ricercatrice Telethon dell’Istituto San Raffaele di Milano, che da tanti anni ne studia le basi genetiche e molecolari. «Le cause possono essere le più diverse - infezioni, esposizione a sostanze tossiche - ma è sempre più chiaro che i geni giocano un ruolo importante. Per esempio, a partire dal 1991 sul cromosoma X sono stati identificati oltre cento geni associati allo sviluppo di disabilità intellettive, tra cui la sindrome dell’X fragile. Certo, nei paesi occidentali le analisi genetiche classiche sono complicate dal fatto che le famiglie sono in genere poco numerose e sono meno frequenti i matrimoni tra consanguinei: oggi però la tecnologia ci permette di analizzare il Dna con costi e tempi sempre più ridotti e riusciamo così a studiare anche i casi sporadici, decisamente più frequenti». Tuttavia, sono ancora molti i casi in cui non si riesce a risalire al difetto genetico, perché le tecniche non sono abbastanza potenti o, più semplicemente, per mancanza di risorse umane ed economiche da impiegare al riguardo.
Eppure, una diagnosi precisa è fondamentale: lo sa bene Angelo Selicorni, primario di Pediatria dell'ospedale Sant'Anna di San Fermo della Battaglia (Como), specializzato in malattie genetiche dell’infanzia. «Per quanto grave e rara sia una malattia, poterle dare un nome è fondamentale, per tutti: per i genitori che sanno contro cosa lottare e possono valutare la possibilità di avere altri figli; per noi medici che possiamo stabilire cosa è meglio fare, prevedere come la malattia evolverà e controllarne le complicanze. Per esempio, se accanto al deficit cognitivo una certa sindrome comporta un aumento del rischio di tumori, potremo tenere quel bambino sotto controllo e intervenire quando necessario. La diagnosi ci aiuta a interpretare quello che vediamo, soprattutto se il paziente non parla: a volte quelle che possono sembrare crisi di agitazione e aggressività non sono altro che il tentativo di manifestare un dolore fisico riconducibile a una causa precisa che, se identificata correttamente, sappiamo affrontare. Non solo: mettere “un’etichetta” ci dà indicazioni su come migliorare la qualità della vita di queste persone grazie al supporto, per esempio, di fisioterapia o logopedia, mantenendole nelle migliori condizioni possibili in vista di nuovi trattamenti che dovessero arrivare in futuro. Nel frattempo dobbiamo avere fiducia in quello che può portarci la ricerca perché la speranza non va mai buttata via».
La ricerca, infatti, è essenziale non solo per provare a “dare un nome” alle malattie, ma anche per individuare possibili strategie di cura. Associare un insieme di sintomi clinici a una specifica patologia non è semplice e può richiedere molto tempo. «Nei casi fortunati in cui riusciamo a farlo, scattano una serie di domande successive: qual è il significato biologico? Quali sono i meccanismi coinvolti? Se non possiamo riparare né sostituire una cellula nervosa che funziona male, possiamo almeno sfruttare la sua capacità di adattamento per “insegnarle” ad aggirare il problema?» continua Patrizia D’Adamo. «Una delle strategie più promettenti per affrontare queste patologie è, infatti, intervenire non sul Dna, ma sul metabolismo delle cellule nervose, sui meccanismi con cui recuperano la “benzina” necessaria per funzionare».
Nel frattempo, quello che oggi può fare la differenza per queste persone è una presa in carico globale che da una parte controlli le complicanze mediche e dall’altra potenzi il più possibile le competenze linguistiche, motorie e relazionali. Un esempio importante in questo senso è quello della sindrome di Down, la causa più frequente di ritardo cognitivo nel bambino e nell’adulto, dovuta alla presenza di una copia in più del cromosoma 21. Nonostante non esista tuttora una cura risolutiva, negli ultimi trent’anni sono significativamente migliorate sia l’aspettativa sia la qualità della vita, intesa anche come inserimento nella società. La speranza di fare ancora meglio, però, non abbandona ricercatori come Laura Cancedda dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova che fa parte del programma carriere di Telethon intitolato a Renato Dulbecco, proprio per provare a mettere a punto una potenziale terapia. «Recentemente abbiamo scoperto che un diuretico in uso da oltre quarant’anni può migliorare le capacità cognitive in un modello animale adulto della sindrome di Down. Inoltre, grazie ai fondi Telethon, cercheremo di capire se trattare gli animali in età precoce possa portare a risultati migliori e se lo stesso farmaco possa avere un effetto anche su altri sintomi tipici della sindrome come l’ansia e i disturbi del sonno. La nostra idea è che l’azione possa essere tanto più efficace quanto prima s’inizia la somministrazione: il cervello, infatti, è un organo plastico dalla grande capacità di adattamento, soprattutto nei primi anni di vita. Se con questo trattamento riuscissimo a controllare nei pazienti anche solo alcuni degli aspetti della sindrome sarebbe un grande successo. Di fronte a malattie come queste non dobbiamo pensare a una pillola magica in grado di risolvere tutto, ma neanche a portoni sbarrati difficili da abbattere».