L’intelligenza artificiale è sempre più presente nella nostra vita quotidiana, con numerose applicazioni in grado di rendere sempre più efficiente, veloce o sicuro lo svolgimento di diversi compiti. Ce lo dimostrano assistenti virtuali come Siri o Alexa, strumenti di traduzione automatica come Deepl o Google Translate, sistemi per il riconoscimento facciale degli smartphone o per la creazione di contenuti come ChatGPT, suggerimenti personalizzati delle piattaforme di streaming.
Ma di che cosa parliamo, esattamente, quando parliamo di intelligenza artificiale? E quale può essere il suo contributo per le malattie genetiche rare? Facciamo il punto.
Che cos’è l’intelligenza artificiale (IA)
Risponde Gennaro Gambardella, bioinformatico responsabile del gruppo di ricerca in Biologia computazionale per la medicina di precisione dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (TIGEM) di Pozzuoli. “Per definizione, l’IA è un campo dell'informatica che si occupa dello sviluppo di algoritmi, cioè sequenze di istruzioni scritte in linguaggi comprensibili per i computer, che hanno lo scopo di mimare processi cognitivi umani come il ragionamento, l'apprendimento, la percezione e il processo decisionale. Obiettivo principale dell’intelligenza artificiale è consentire alle macchine di risolvere problemi complessi e adattarsi a nuove situazioni, simulando processi tipici dell'intelligenza umana”.
Come funziona l’intelligenza artificiale
“In realtà l'IA non è un unico sistema, ma un insieme di modelli e tecnologie progettati per affrontare compiti diversi” spiega Gambardella. “Per esempio, esistono intelligenze artificiali più ‘semplici’, basate su regole predefinite, che seguono istruzioni precise per prendere decisioni e altre più avanzate, come il machine learning, che sono in grado di imparare dai dati esistenti e migliorare nel tempo. Altri modelli ancora sono quelli di deep learning, che utilizzano strutture informatiche ispirate al funzionamento del cervello umano per affrontare problemi complessi, come il riconoscimento delle immagini o l'elaborazione del linguaggio”.
L’intelligenza artificiale in medicina: il contributo per le malattie genetiche rare
L’IA può essere d’aiuto in tutti quegli ambiti che sono particolarmente sfidanti per le malattie genetiche rare, ancora più che per altre malattie, come la formulazione prima della diagnosi e poi della prognosi e lo sviluppo di nuove terapie.
Intelligenza artificiale e diagnosi
Uno dei contributi principali dell’IA nelle malattie genetiche rare è quello di ridurre i tempi del percorso diagnostico che in alcuni casi può durare anni. Tra le tecnologie utili in questo senso possiamo citare sistemi avanzati di riconoscimento facciale che, applicati all’analisi di immagini cliniche, possono rilevare in modo più facile e veloce caratteristiche fisiche associate a sindromi genetiche rare.
Un’altra applicazione fondamentale è quella per individuare le cause genetiche di malattie sconosciute. “Partiamo dal dato di fatto che ciascuno di noi possiede, all’interno del proprio DNA, migliaia di varianti genetiche del tutto personali, cioè non presenti nei genitori. Nella maggior parte dei casi, queste varianti, o mutazioni, non hanno effetti significativi. Ma nelle persone con una malattia genetica rara, la malattia dipende proprio da una di queste mutazioni” racconta Gambardella.
“Capire quale sia la mutazione responsabile può essere come cercare un ago in un pagliaio. Ma è proprio in questi casi che l’intelligenza artificiale può venire in aiuto. Grazie alla capacità di analizzare e confrontare enormi quantità di dati genetici e clinici fino a identificare correlazioni che sfuggirebbero all’occhio umano”. Per questo è già ampiamente integrata nei sistemi di analisi utilizzati al TIGEM nell’ambito del Programma malattie senza diagnosi, che ha proprio l’obiettivo di dare un nome a malattie genetiche rare non ancora identificate.
Intelligenza artificiale e prognosi
“Come starò tra un anno? E tra cinque o tra dieci?” È la prima domanda che ogni paziente pone al medico appena riceve una diagnosi di malattia. Non sempre, però, è facile dare una risposta o, in altri termini, fornire una prognosi, una previsione dell’andamento nel tempo della malattia. Anche in questo caso, però, la capacità di analisi e di confronto di grandi quantità di dati propria dell’intelligenza artificiale può venire in aiuto.
Prendiamo la distrofia fascio-scapolo-omerale (FSHD), una delle forme più frequenti di distrofia muscolare, caratterizzata da debolezza muscolare progressiva che interessa in particolare i muscoli di viso, spalle e arti. “La malattia presenta un’alternanza di periodi di rapida evoluzione e di relativa stabilità” spiega Mauro Monforte, neurologo del Policlinico Gemelli di Roma, sottolineando che è particolarmente difficile prevederne la progressione, sia a livello di singolo paziente sia a livello di gruppo muscolare.
In un progetto di ricerca finanziato con l’ultimo bando Fondazione Telethon-UILDM, Monforte, con il collega radioterapista Luca Boldrini, punta a utilizzare una nuova tecnologia chiamata radiomica, basata appunto su algoritmi di IA, per estrarre dalle risonanze magnetiche muscolari dei pazienti informazioni che sfuggirebbero al “semplice” occhio clinico. “Ipotizziamo che, combinate con i dati clinici e genetici dei pazienti, queste informazioni ci permetteranno di prevedere in quali muscoli ci sarà una maggiore probabilità di progressione della malattia. In questo modo si potranno personalizzare gli interventi medici e di riabilitazione”.
Intelligenza artificiale e sviluppo di nuovi farmaci
Fondamentale, infine, il contributo dell’IA nello sviluppo di nuove terapie per le malattie genetiche rare. Pensiamo a malattie causate dall’assenza, dalla carenza o dal malfunzionamento di enzimi coinvolti in processi metabolici, come la malattia di Fabry o altri disturbi da accumulo lisosomiale. In questi casi si può pensare di fornire ai pazienti degli enzimi sostitutivi, ma non sempre questi sono davvero efficaci. Ebbene, con l’intelligenza artificiale si possono individuare o addirittura progettare varianti migliori di questi enzimi, oppure capire in quali condizioni funzionano al meglio.
“È quanto stiamo facendo al TIGEM con il ‘Super Enzyme Project’. L’IA è utilizzata per progettare enzimi più efficienti di quelli presenti in natura” dichiara Gambardella. “Siamo fiduciosi che in un prossimo futuro questo potrà migliorare molto la qualità della vita di diversi pazienti”.
Inoltre, nuovi metodi computazionali basati sull’IA stanno già dando il loro contributo nei progetti di riposizionamento, o repurposing, di farmaci, cioè la ricerca di nuovi utilizzi per farmaci già approvati per altre indicazioni terapeutiche. Un altro ambito di cui sta occupando sempre il TIGEM. “Con l’IA si possono analizzare enormi quantità di dati relativi agli effetti biologici di farmaci già esistenti per individuare quelli validi per patologie diverse. Anche da questo approccio ci aspettiamo grandi risultati”.