Silvia Bisti si definisce una ricercatrice di base: nella sua vita professionale ha sempre studiato gli occhi, per andare a fondo dei meccanismi che ci fanno vedere e che con l’età o in alcune malattie si inceppano.
Quando parla dei fotorecettori – le cellule nervose che trasformano la luce in segnali elettrici per il cervello – li definisce “dei gioielli, che la natura ha perfezionato nel corso dell’evoluzione”. Cellule sofisticate ed esigenti, i fotorecettori hanno un metabolismo intenso che richiede moltissimo ossigeno. Con gli anni, però, il meccanismo tende a incepparsi e l’ossigeno da vitale che era può diventare tossico per queste cellule, fino a provocarne la morte: è quello che avviene in diverse forme di cecità senile, ma anche – a causa di difetti genetici – in maculopatie ereditarie come la sindrome di Stargardt.
Attualmente non esiste cura per queste patologie: nel frattempo, però, molti ricercatori come Silvia si sono chiesti se e come sia possibile contrastare il danno da ossigeno e rallentare così il processo degenerativo. Per ritardare il più possibile la perdita della vista, ma anche per dare il tempo alla scienza di trovare strategie di cura definitive. Così Silvia si è messa a studiare quali sostanze potessero avere un effetto simile. E lavorando a L’Aquila si è inevitabilmente trovata tra le mani lo zafferano (Crocus sativus), di cui l’Abruzzo è fra i principali produttori al mondo.
Sostanza interessante lo zafferano: usato da secoli nella medicina tradizionale (anche la regina Cleopatra lo metteva nel bagno!), si sa oggi che contiene sostanze capaci di influire sul bilancio dell’ossigeno e di contrastare la morte cellulare (apoptosi). Silvia decide così di provarne gli effetti su dei ratti albini che, a causa di una mutazione genetica, vanno incontro alla perdita dei fotorecettori se esposti alla luce. Ebbene, somministrato a questi animali modello lo zafferano si è dimostrato capace di proteggerli dai danni luminosi, molto più del beta-carotene che fino a quel momento era la sostanza più promettente in questo senso. Sorpresa, ma anche incuriosita, la ricercatrice ha chiesto la collaborazione di alcuni colleghi australiani a loro volta esperti di fisiologia dei fotorecettori: insieme hanno scoperto che lo zafferano era in grado di influire sull’attività di diversi geni, alcuni responsabili dell’infiammazione in risposta allo stress ossidativo a carico della retina, altri dalla funzione ancora ignota. Un dato che faceva pensare a un’azione specifica della sostanza. Già, ma quale sostanza? Esistono tantissimi tipi di zafferano, preparati in modo differente, e dai test condotti finora sembra che quello abruzzese sia l’unico ad avere un effetto protettivo sulla retina.
Come spesso accade nella scienza, gli incontri giusti al momento giusto possono far decollare le idee e i buoni risultati. Benedetto Falsini lavora presso il dipartimento di Oftalmologia e Otorinolaringoiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Come medico si occupa da sempre di malattie oculari, in particolare di quelle retinopatie che portano progressivamente alla cecità o comunque a una grave riduzione della vista a causa della morte dei fotorecettori. Conosce Silvia da tempo, ma un giorno, durante un convegno a L’Aquila, lei gli racconta delle sue recenti scoperte sullo zafferano. Con dati preliminari così esaltanti e con il vantaggio che lo zafferano è una sostanza certamente non tossica visto l’ampio utilizzo in campo alimentare, decidono di testarne l’efficacia su persone affette da degenerazione maculare legata all’età. Avvalendosi della collaborazione di una ditta locale, Silvia si fa preparare le pasticche di zafferano per condurre la sperimentazione: “devono essere prodotte accuratamente, proprio con quello zafferano lì, e soprattutto devono avere degli analoghi assolutamente identici nell’aspetto ma contenenti un placebo per poter fare dei confronti tra chi assume la sostanza e chi no”.
“La prima sperimentazione su 30 pazienti ha risultati insperati: persone che prima non riuscivano a leggere riescono a farlo” racconta Benedetto. “Per chi da anni vede questi pazienti il risultato è una grande soddisfazione, ma anche fonte di grandi preoccupazioni. Bisogna provare a replicare il risultato, confermarlo, avere la certezza che sia davvero un effetto dello zafferano. Non bisogna illudere le persone, chi sa che non ha speranze è disposto ad assumere qualsiasi cosa, ad andare al supermercato e a fare incetta di tutto lo zafferano presente sul bancone. Anche se l’unico che ha dimostrato una qualche efficacia è quello abruzzese e non è assolutamente detto, anzi è altamente improbabile, che quello che troveranno sul bancone abbia qualche effetto. Per un ricercatore tutto questo potrebbe anche significare perdere una credibilità acquisita faticosamente negli anni”.
Si sa, i tempi della scienza sono molto più lenti di quelli della malattia. Nel frattempo in Abruzzo il terremoto ha distrutto buona parte del lavoro del gruppo di Silvia: con la mancata elettricità si sono persi dati al computer, reagenti, campioni biologici. Ma nonostante la mancanza di supporto dalle istituzioni, il team si è faticosamente rimesso in piedi. E alla fine di luglio sono arrivati i soldi di Telethon per provare a sperimentare la cura a base di zafferano per la sindrome di Stargardt, la forma più comune di degenerazione maculare ereditaria, che colpisce una persona su 10.000. Si manifesta a partire dall’adolescenza e porta alla diminuzione progressiva della vista nella porzione centrale del campo visivo, fino ad arrivare alla cecità. Attualmente non esiste una terapia risolutiva, per quanto al Tigem di Napoli i ricercatori stiano lavorando da anni alla terapia genica, che sul modello animale ha già dato risultati molto positivi.
La Commissione scientifica di Telethon ha riconosciuto le potenzialità della terapia con zafferano, soprattutto guardando al futuro: se si rivelerà efficace potrà migliorare notevolmente la qualità di vita di molte persone e – più avanti – potenziare l’effetto della terapia genica. Benedetto, il titolare del finanziamento Telethon, è molto soddisfatto “perché ricevere fondi da Telethon significa di fatto avere un riconoscimento sulla qualità del proprio lavoro e sulla solidità delle proprie ipotesi”.
Benedetto e Silvia sono quindi pronti per mettersi al lavoro: lui per testare l’effetto dello zafferano su un primo gruppo di pazienti affetti da sindrome di Stargardt, lei per andare a fondo dei meccanismi con cui questa sostanza protegge la retina, ma anche per capire se l’eventuale effetto può dipendere dal profilo genetico dei pazienti.