Spiega Maria Ester Bernardo, dell’SR-Tiget: «Per chi come me è medico e fa ricerca, non c’è soddisfazione più grande di vedere una strategia disegnata sul bancone arrivare al letto del paziente offrendo una cura»
«Per la prima volta al mondo stiamo testando sui pazienti con mucopolisaccaridosi di tipo 1 una nuova strategia terapeutica». Lo racconta con grande emozione Maria Ester Bernardo, Project leader dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano e responsabile dell’Unità funzionale di Trapianto del midollo osseo pediatrico dell’ospedale milanese.
Si tratta di una terapia genica per questa malattia che nella forma grave (detta sindrome di Hurler) esordisce nei primi anni di vita determinando difetti di crescita, deformità scheletriche, insufficienza cardiaca, malfunzionamento di fegato e milza, deficit cognitivi, problemi alla vista, bassa statura, e un’aspettativa di vita limitata per complicazioni cardiovascolari e respiratorie.
Il nuovo protocollo terapeutico è simile a quello già messo a punto da Fondazione Telethon per il trattamento di altre malattie genetiche rare, come la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott-Aldrich. «Prevede il prelievo delle cellule staminali ematopoietiche dal sangue del paziente, poi la loro ingegnerizzazione in laboratorio in modo da introdurre il gene sano e infine l’infusione». A veicolare il gene ci pensa un virus reso innocuo ma capace di trasferire materiale genetico. E così le cellule del midollo osseo che ricevono il gene corretto diventano una fabbrica che produce l'enzima per poi dirottarlo ai vari organi.
«Lo studio clinico è iniziato lo scorso maggio e finora abbiamo coinvolto sette pazienti affetti dalla sindrome di Hurler: l’ottavo inizierà il trattamento proprio la prossima settimana». Prima del “trapianto”, il paziente viene sottoposto a chemioterapia per poter “far posto” alle cellule corrette.
Spiega Bernardo. In particolare, il team dell’Istituto San Raffaele Telethon di Milano vuole verificare se la terapia genica riesce a ripristinare correttamente la produzione dell’enzima la cui carenza determina l’accumulo di sostanze tossiche (i glucosaminoglicani) che progressivamente danneggiano l’organismo.
«Dei sette pazienti già trattati, tutti hanno avuto un decorso post-terapia favorevole, con attecchimento precoce delle cellule corrette. Inoltre, tutti i pazienti hanno mostrato livelli dell’enzima al di sopra del limite superiore di normalità e conseguente riduzione dei glucosaminoglicani» chiarisce Bernardo. «Ovviamente - aggiunge - sarà necessario trattare un numero maggiore di pazienti e osservarli nel tempo per poter trarre conclusioni definitive sull’efficacia della terapia genica anche rispetto al trapianto allogenico. Ma i risultati finora sono molto incoraggianti».
La mucopolisaccaridosi di tipo 1 (MPS1) è una malattia rara caratterizzata dall’accumulo di sostanze tossiche perché, a causa delle mutazioni di un gene (IDUA), non viene prodotto (per niente o non a sufficienza) un enzima e così la cellula non riesce a smaltire adeguatamente i rifiuti. Attualmente le uniche opzioni terapeutiche disponibili sono la terapia enzimatica sostitutiva, che si basa sull’infusione settimanale dell’enzima carente, ma non corregge i problemi neurologici e ortopedici delle forme più gravi, e il trapianto - se effettuato precocemente, entro i due anni di vita - di cellule staminali prelevate dal midollo osseo o dal sangue del cordone ombelicale di un donatore sano.
Maria Ester Bernardo descrive con entusiasmo e passione i diversi step della sua attività di ricerca che punta a tradurre in nuovi farmaci a disposizione dei pazienti i risultati ottenuti in laboratorio. «Io sono una trapiantologa e per me è una sfida affascinante poter riuscire ad andare oltre la terapia standard mettendo a punto una terapia più raffinata e potenzialmente più efficace. Per chi come me è medico e fa ricerca, non c’è soddisfazione più grande di vedere una strategia disegnata sul bancone arrivare al letto del paziente offrendo una cura. Certo i tempi sono lunghi: almeno 12-15 anni affinché un nuovo trattamento, dalla sperimentazione preclinica arrivi al mercato. Ma – conclude - sono tempi necessari per poterne verificare sicurezza ed efficacia».