Lo studio di una rara forma ereditaria dell’Università di Trento, finanziato da Fondazione Telethon, apre nuove prospettive per la comprensione dello sviluppo delle malattie della terza età.
Grazie allo studio di una rara forma ereditaria della malattia di Parkinson, ricercatori dell’Università di Trento hanno descritto un nuovo meccanismo patologico alla base della malattia che potrebbe in futuro essere sfruttato in chiave terapeutica anche per le forme non genetiche. Pubblicato sulla rivista Brain, il lavoro è stato coordinato da Giovanni Piccoli, ricercatore del Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata (Cibio), con il supporto del programma carriere della Fondazione Telethon, l’Istituto Telethon Dulbecco.
Quella di Parkinson è una malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta ma progressiva, che coinvolge specifiche aree del cervello, i gangli della base, deputate al controllo del movimento e dell’equilibrio. Nel tempo si assiste alla degenerazione di specifici neuroni presenti nei gangli della base, quelli dopaminergici, e parallelamente alla comparsa di aggregati di proteine con effetto tossico sulle cellule. Ad oggi le basi molecolari della malattia non sono ancora note e questo ha ostacolato lo sviluppo di farmaci risolutivi: infatti, le terapie farmacologiche attuali basate sul trattamento L-DOPA o DOPA agonisti sono in grado soltanto di alleviare i sintomi, ma non di risolvere la malattia alla radice.
Si stima che nel mondo siano oltre 10 milioni le persone colpite dalla malattia di Parkinson. Nella maggior parte dei casi l’insorgenza è del tutto sporadica, ma esistono anche rare forme familiari di origine genetica, causate cioè da mutazioni a carico di specifici geni: studiarle si è rivelato molto utile per fare luce sui meccanismi, ancora in gran parte oscuri, della patologia. Il gruppo guidato da Piccoli si occupa di una particolare proteina espressa sia nel cervello che in altri tessuti, LRRK2, che quando presenta la mutazione G2019S è responsabile di circa il 10 per cento delle forme genetiche di Parkinson.
Coinvolta in diversi meccanismi cellulari, fra cui il controllo dell’attività neuronale, LRRK2 è una chinasi, ovvero una proteina che agisce trasferendo un gruppo fosfato ad altre molecole: questa reazione chimica, denominata fosforilazione, è un meccanismo fondamentale usato dalle proteine per regolare i programmi cellulari. In presenza della mutazione G2019S, associata all’insorgenza di forme familiari di Parkinson, LRRK2 aumenta la sua attività di fosforilazione. Inoltre, studi condotti su materiale autoptico di pazienti e neuroni umani generati a partire da cellule pluripotenti hanno evidenziato come la mutazione G2019S di LRRK2 induca morte cellulare e formazione di aggregati proteici. Tra le proteine bersaglio di LRRK2 c’è anche NSF, un enzima coinvolto nel traffico delle vescicole: ed è proprio su questo enzima che si sono concentrati i ricercatori del Cibio.
«Abbiamo scoperto che una volta fosforilato da LRRK2, NSF precipita e forma aggregati proteici che, a lungo andare, danneggiano le cellule nervose non solo nei gangli nella base, ma anche in aree cerebrali cruciali per la memoria e l’apprendimento, come per esempio la corteccia e l’ippocampo - spiegano Francesca Pischedda e Maria Daniela Cirnaru, le ricercatrici che hanno condotto la maggior parte degli esperimenti -. I risultati sperimentali hanno infatti evidenziato come nei modelli preclinici della mutazione G2019S di LRRK2 l’aggregazione di NSF possa essere alla base dei difetti motori e cognitivi tipici della malattia di Parkinson».
Alla luce di questi risultati, i ricercatori si sono quindi chiesti come promuovere l’eliminazione di questi aggregati proteici tossici: la risposta potrebbe risiedere in un fenomeno che nel 2016 è stato anche oggetto del premio Nobel per la Medicina, l’autofagia. «Si tratta di un meccanismo intrinseco di cui dispongono tutte le cellule che permette di eliminare sostanze di scarto o dannose, come per esempio gli aggregati proteici potenzialmente tossici - spiega Giovanni Piccoli -. Gli studi sull’autofagia, a partire dal lavoro del premio Nobel Yoshinori Ohsumi hanno permesso di comprendere questo cruciale fenomeno e di identificare farmaci in grado di stimolarlo. Nel nostro caso, ci siamo concentrati su uno zucchero naturale, il trealosio, che abbiamo provato a sfruttare per stimolare l’autofagia. Il trealosio si è in effetti dimostrato efficace nel ridurre l’aggregazione proteica, la morte cellulare e i difetti motori e cognitivi nei diversi modelli preclinici di malattia. La possibilità di stimolare l’autofagia e dunque di rimuovere gli aggregati proteici che danneggiano i neuroni, non solo nel Parkinson ma anche in altre malattie neurodegenerative, rappresenta quindi una strategia terapeutica promettente».
Il lavoro dell’Università di Trento, svolto in collaborazione con lo University College of London, l’Università di Padova e il CNR di Milano, conferma dunque il ruolo chiave dell’autofagia nelle malattie dovute all’aggregazione proteica. Ulteriori studi saranno necessari per trasformare questi dati in una reale opportunità clinica.