Per alcune malattie genetiche rare, una dieta speciale può rappresentare una terapia salvavita. L’impatto sulle famiglie e in particolare sulle mamme, però, può essere pesante. Ecco perché la ricerca deve continuare.
Fenilchetonuria, sindrome da deficit di Glut1, difetti del ciclo dell’urea, deficit da piruvato deidrogenasi: sono tutte malattie genetiche rare per le quali un’alimentazione speciale può impedire o attenuare lo sviluppo di sintomi spesso gravi, rappresentando l’unica – o quasi – opzione terapeutica possibile. Per i genitori alle prese con i primi, difficili momenti dopo una diagnosi, sapere che esiste il modo di tenere sotto controllo la malattia del loro bambino è certamente un grande sollievo, ma il fatto che questa possibilità passi attraverso la dieta rende le cose più complicate di quanto potrebbe sembrare.
“La necessità di organizzare per un figlio una dieta speciale, dalla quale non si può sgarrare, impatta come uno tsunami sulla vita familiare e sociale, e lo fa tanto più intensamente quanto più la dieta è restrittiva e particolare” spiega Simona Bertoli, docente di nutrizione umana e dietoterapia all'Università di Milano, dove dirige un gruppo di ricerca presso il Centro internazionale per lo studio della composizione corporea. Nella grande maggioranza dei casi sono le mamme a farsi carico di questo aspetto, ed è tutt’altro che facile.
Quando la dieta diventa terapia
Ci sono diverse malattie genetiche rare per le quali la dieta funziona come un farmaco: una forma di medicina di precisione che permette di aggirare gli effetti dannosi del difetto genetico, pur senza correggerlo. In genere si tratta di malattie metaboliche come la fenilchetonuria, causata da un difetto enzimatico che provoca un accumulo dell'amminoacido fenilalanina nel cervello, a sua volta responsabile di una compromissione dello sviluppo del sistema nervoso centrale e dunque di grave disabilità intellettiva.
“La soluzione dietetica sta nell’evitare fin dalla nascita l'assunzione di fenilalanina, grazie a una dieta povera di proteine, magari integrata con miscele speciali di amminoacidi privi di fenilalanina” spiega Nicola Brunetti-Pierri, professore di pediatria all'Università Federico II di Napoli e responsabile di un gruppo di ricerca sui difetti congeniti del metabolismo presso l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli.
Anche nel caso di malattie dovute a difetti del ciclo dell’urea il problema è rappresentato dalle proteine. “Questi difetti – prosegue Brunetti-Pierri – riguardano enzimi necessari per l'eliminazione dell’ammonio, un derivato del metabolismo proteico tossico per il cervello, attraverso l’urina. Se questi enzimi non funzionano bene e l’assunzione di proteine non è controllata, l’ammonio si accumula nel cervello, con danni irreversibili”. A venire in soccorso è quindi una dieta a ridotto contenuto di proteine, associata a farmaci specifici. Ma attenzione, non significa limitarsi a ridurre il numero di bistecche o frittate: il controllo deve essere molto più preciso e spesso la quantità di proteine concessa è davvero limitata, magari a pochi grammi al giorno. Per intenderci, un singolo uovo contiene 13 grammi di proteine e ce ne sono 6-7 grammi in 50 grammi di pasta e più di 20 grammi in un etto di petto di pollo.
Per la sindrome da deficit di Glut1 la dieta salvavita è quella chetogenica, a elevato contenuto di grassi e bassissimo contenuto di zuccheri. La sindrome è caratterizzata dalla carenza di una molecola che trasporta il glucosio al cervello e da manifestazioni di vario tipo e gravità che possono comprendere difficoltà motorie e cognitive, crisi epilettiche, disturbi del sonno e del linguaggio.
Il principio alla base della dieta chetogenica, diventata piuttosto di moda negli ultimi anni anche come dieta dimagrante, è quello di ricorrere ai grassi come fonte energetica principale per il cervello: in questa dieta i grassi arrivano a costituire circa l'80-90% dell’apporto calorico totale, contro il 30% circa in un'alimentazione mediterranea. In queste condizioni cambia tutto il metabolismo, portando alla produzione di sostanze chiamate corpi chetonici che possono essere utilizzate come fonte energetica alternativa al glucosio.
La dieta chetogenica è proposta anche per alcune malattie mitocondriali e per il deficit di piruvato deidrogenasi, che comporta acidosi lattica e danni anche molto gravi o fatali al sistema nervoso. “Infine, è utilizzata per malattie genetiche rare caratterizzate da manifestazioni epilettiche, come la sindrome di West e la sindrome di Lennox-Gastaut, e più in generale per forme di epilessia resistenti ai farmaci, il 30% circa delle epilessie” spiega Pierangelo Veggiotti, professore di neuropsichiatria infantile all'Università di Milano e direttore dell'Unità operativa di neurologia pediatrica dell'Ospedale Buzzi. “In questi casi il meccanismo d'azione è diverso da quello che si verifica nelle malattie metaboliche. Per quanto poco noto, sappiamo che porta a una stabilizzazione delle cellule nervose attenuando l'innesco delle crisi epilettiche”.
Come per la dieta a basso contenuto di proteine, anche per quella chetogenica impiegata a fini terapeutici non si tratta di mangiare qualche porzione di salmone, olio o mascarpone in più del normale. Al contrario, ogni pasto deve prevedere una combinazione ben definita di ingredienti dosati al grammo, senza mai sgarri o sospensioni, secondo il principio guida che il cibo si trasforma in farmaco, con la necessaria precisione che ne deve derivare.
Un impatto pesante
Purtroppo, non sempre queste diete hanno effetti risolutivi e a questo limite importante va aggiunto l’impatto sulla famiglia, e in particolare sulla mamma, che può essere “sconvolgente”, come dichiara Simona Bertoli. Per esempio: se la diagnosi – e quindi la proposta terapeutica – arrivano nei primi giorni o settimane di vita in seguito all’esecuzione del test di screening neonatale, può essere necessario interrompere un eventuale allattamento al seno. “È il caso della fenilchetonuria – spiega Bertoli – mentre in presenza di deficit di Glut1 si può utilizzare latte materno estratto come ingrediente nell’ambito di un’alimentazione chetogenica”.
Le difficoltà maggiori, però, arrivano dopo lo svezzamento, con il passaggio a un’alimentazione che non sia più fatta di sole pappe. “È il momento in cui soprattutto le mamme si preparano a trasmettere ai figli le abitudini alimentari della famiglia e del contesto sociale” spiega la nutrizionista.
"In più c’è la difficoltà psicologica di pensare che non si possono offrire al bambino tutte le cose buone che si preparano per sé e per gli altri familiari. In realtà molto sarà ancora possibile, anche se con modalità diverse, con tante attenzioni in più (soprattutto fuori casa) e con un impegno maggiore nella preparazione dei pasti. Tra l’altro, molti degli alimenti speciali che mangerà il bambino li potranno mangiare anche i genitori”.
È chiaro però che non sarà una passeggiata. Quando la dieta prevede l’esclusione di numerosi alimenti (pensiamo al caso della celiachia) o richiede di pesarli (e solo alcuni, perché non tutti sono concessi), la fatica di stare dietro alla preparazione quotidiana dei pasti è molto elevata. Senza contare la frustrazione quando il bambino non mangia. “Non è quella solita delle mamme, sempre preoccupate che i loro bimbi non mangino abbastanza” chiarisce Bertoli. “Qui parliamo di un’alimentazione equivalente a un farmaco: se il bambino non mangia diventa un problema. Pensiamo ai piccoli con il diabete, che fanno l’insulina prima del pasto proprio perché così possono metabolizzare gli zuccheri introdotti. Se però non mangiano, o mangiano la metà di quanto era previsto, rischiano di andare in ipoglicemia, per cui le mamme corrono subito a preparare qualcos’altro. Nel caso della dieta chetogenica la criticità sta nel fatto che il bambino deve mangiare tutto quanto compone ogni singolo pasto, che è costruito in modo da avere una precisa quantità di grassi, zuccheri e proteine. Se un solo ingrediente salta, non è più rispettato il rapporto tra i nutrienti e la dieta non è più chetogenica. Significa che non si può togliere lo sguardo dal piatto del bambino, che bisogna controllare che mangi tutto e che non cada niente per terra e questo va fatto ogni giorno, cinque volte al giorno. Solo così la dieta può avere i suoi effetti terapeutici”.
Inevitabilmente, questo diventa fonte di grande stress per le mamme, anche per il timore di sbagliare. “Il pensiero delle mamme di bimbi che seguono una dieta chetogenica, per esempio, è che se sbagliano a comporre un piatto, magari usando il latte al posto della panna, i loro bimbi potrebbero avere una crisi epilettica. Sentono quindi una responsabilità molto forte, che le porta a un controllo assiduo di ogni aspetto e a delegare il meno possibile”. Anche lasciare il bambino dai nonni per un week end diventa una complicazione: “Non solo bisogna portare tutti gli ingredienti speciali della dieta del bambino, ma spiegare accuratamente cosa e come fare e comunque spesso si rimane con la preoccupazione che possa andare storto qualcosa”.
In effetti sono le uscite in generale a essere piuttosto complicate per le famiglie di bimbi che devono seguire diete speciali. “Non si possono improvvisare gite fuori porta – precisa Bertoli – ma bisogna programmare in anticipo e con precisione, provvedendo a tutti i pasti che saranno fatti fuori casi, preoccupandosi di come conservarli, cercando di immaginare come si comporterà il bambino se per esempio la dieta deve essere adattata al suo livello di attività fisica come nel caso del diabete”. Anche andare al ristorante non è semplice. Certo, ci sono accorgimenti che permettono di farlo (per esempio portandosi dietro bilancine molto precise per pesare gli alimenti), ma c’è il rischio che si riveli un’esperienza più stressante che piacevole.
Come gestire i limiti delle diete speciali
Per fortuna, a fronte di tante difficoltà ci sono anche alcune strategie che permettono di attenuarle. Per molte diete terapeutiche esistono alimenti speciali che “simulano” quelli normali (farine aproteiche, per esempio, o alimenti chetogenici a base di fibre, o prodotti privi di glutine e così via) e che semplificano sia la preparazione dei pasti a casa sia la gestione di quelli fuori casa. Anche se non sempre questi alimenti speciali – tendenzialmente costosissimi – sono inseriti nei livelli essenziali di assistenza previsti per le varie malattie e dunque “passati” dal Servizio Sanitario Nazionle.
“Al di là di queste semplificazioni, comunque, rimane fondamentale lavorare con i genitori fornendo formazione e informazioni – il cosiddetto empowerment – perché possano gestire meglio le diete dei loro bambini. Saper fare il conto dei carboidrati in caso di diabete o saper usare l’app per la dieta chetogenica messa a punto dall’Associazione italiana Glut1 in collaborazione con l'Università di Pavia e il Politecnico di Milano, per esempio, permettono di modulare con più facilità i singoli pasti mettendo in relazione i desiderata del bambino con le restrizioni della dieta” afferma Bertoli. E molto importante è anche il supporto psicologico, specialmente se sono presenti fratelli o sorelle che non devono seguire alimentazioni speciali, per riuscire a trovare strategie per evitare i conflitti tra i bambini o con i genitori (“perché lui sì e io no?”) o sostenere quelli inevitabili. Per lo stesso motivo sono di grande rilevanza i gruppi di autoaiuto tra genitori, per scambiarsi non solo ricette, ma anche frustrazioni e solidarietà.
“Quando possibile – conclude Bertoli – si cerca anche di trasferire l’empowerment sul paziente stesso, sia per allentare la pressione sulla mamma, sia per facilitare il distacco con il bambino, che altrimenti tende a rimanere iperprotetto e limitato nelle sue relazioni sociali. Questo è d’aiuto anche nel momento al passaggio all’adolescenza, che per definizione è il momento in cui i pazienti tendono a seguire la dieta terapeutica con meno costanza di quanto dovrebbero”.
Perché la ricerca non può fermarsi
Insomma, la dieta può salvare la vita ma è indubbio che altri tipi di terapie sarebbero da preferire.
E le buone notizie non mancano. Nel 2019, per esempio, è stata approvata in Europa la prima terapia enzimatica sostitutiva per la fenilochetonuria, da somministrare una volta al giorno per iniezione e indicata per pazienti con più di 16 anni che non hanno un adeguato controllo della fenilalanina nel sangue. Sono stati inoltre ottenuti risultati incoraggianti con la sperimentazione preclinica di una terapia genica (in questo caso l'obiettivo è fornire al paziente una versione funzionante del gene codificante per l'enzima difettoso), appena avviata alla sperimentazione clinica. Nel caso della sindrome da deficit di Glut1, invece, si stanno cercando soluzioni in grado di migliorare il trasporto del glucosio a livello cerebrale, anche da parte di ricercatori sostenuti da Fondazione Telethon, come Federico Zara dell'Istituto Gaslini di Genova e Paolo Grumati del Tigem.