Roman Polishchuk del Tigem di Pozzuoli racconta le potenzialità del microscopio elettronico e come lo utilizza per trovare una possibile terapia per una rara malattia genetica del fegato, quella di Wilson.
«Sotto la lente del microscopio elettronico c’è un mondo che ci parla: sta a noi ricercatori imparare a interpretare l’infinitamente piccolo e ottenere informazioni nuove su come funzioniamo, perché ci ammaliamo, oppure se una terapia sta effettivamente funzionando». L’entusiasmo è quello di Roman Polishchuk, ricercatore dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli: qui è responsabile del servizio di microscopia avanzata, che consente di ottenere una risoluzione fino a migliaia volte maggiore rispetto a quella del più “tradizionale” microscopio ottico. «Questo strumento ci permette di osservare direttamente strutture della cellula che tipicamente vediamo rappresentate sui libri con dei disegni: le proteine di membrana, come per esempio la spike del coronavirus, o le fibrille di actina e miosina dei nostri muscoli. Oppure strutture importantissime come i mitocondri, le centrali energetiche della cellula, che non appaiono più solo come dei “puntini”, ma in tutta la loro complessità interna. Insomma, questo strumento ci permette di vedere e non di immaginare o dedurre come siamo fatti».
Gli studi sulla malattia di Wilson
Proprio i mitocondri, le centrali energetiche delle cellule di cui abbiamo fatto recentemente un identikit, sono oggetto degli studi di Polishchuk, in particolare per il loro ruolo nella malattia di Wilson. Questa rara malattia genetica, di cui novembre è il mese di sensibilizzazione, è dovuta alla carenza di ATP7B, un enzima responsabile del trasporto del rame al di fuori della cellula: questo metallo è infatti una componente importante di diverse strutture cellulari, ma ad alte dosi è molto tossico. Nella malattia di Wilson il rame si accumula prevalentemente nel fegato. La gravità varia in base a quanto l’attività dell’enzima è compromessa: ci sono persone in cui il difetto è solo parziale e l’esordio si ha intorno ai 20 anni, altre in cui invece l’enzima manca completamente o non funziona del tutto che manifestano i sintomi già dall’infanzia e possono andare incontro a insufficienza epatica, con necessità di trapianto.
«Abbiamo imparato tantissimo dall’osservazione delle biopsie di pazienti. Osservandole al microscopio - spiega il ricercatore - abbiamo visto che i mitocondri sono il comparto più sensibile alla tossicità del rame: lo usano molto per far funzionare le proprie proteine, ma a causa del difetto in ATP7B non riescono a eliminarlo. L’accumulo di rame compromette l’integrità dei mitocondri, che iniziano così a rilasciare dei veri e propri segnali di morte per la cellula. Per difendersi, la cellula avvia un meccanismo molto noto a noi ricercatori, l’autofagia: i mitocondri danneggiati vengono isolati in speciali compartimenti, gli autofagosomi, che ne consentono l’eliminazione selettiva, senza che l’intera cellula muoia. Parallelamente la cellula continua a fabbricare nuovi mitocondri e può sopravvivere. Grazie ai nostri studi qui al Tigem, sia nel modello animale della malattia che in biopsie di pazienti, si è compreso che promuovendo l’autofagia si può migliorare la salute delle cellule. Questo è interessante in chiave terapeutica: del resto sono numerose le malattie in cui la regolazione dell’autofagia ha un ruolo importante, tanto che diverse aziende farmaceutiche hanno questo processo di “pulizia” nel loro mirino. Abbiamo perciò iniziato a fare uno screening di molecole in grado di attivarla e ne abbiamo trovata una interessante che è già un ingrediente di prodotti di uso comune come il dentifricio e il liquido per le lenti».
Il potere della microscopia elettronica
La microscopia elettronica è stata determinante per gli studi di Polishchuk: una tecnologia che richiede anni di formazione specifica e che per certi versi è comparabile a un’arte. «Serve un’ottima manualità, come quella di un gioielliere o di un microchirurgo. L’ordine di grandezza delle strutture che osserviamo è quella dei nanometri, i miliardesimi di metro: un mitocondrio, per esempio, può misurare dai 200 ai 1000 nanometri, ma siamo in grado di distinguerne anche i ripiegamenti della membrana, o criste, che ne misurano solo 5-10. Ricordo lo sbalordimento di una collega che aveva sempre lavorato al microscopio ottico quando ha iniziato, sotto la mia supervisione, a usare quello elettronico: è proprio un altro mondo! Con il tempo l’occhio si allena a cogliere le caratteristiche peculiari di ciascun tessuto del nostro corpo: le immagini parlano, sta a noi imparare a interpretarle».
Anche la preparazione dei campioni da studiare è molto complessa. Il frammento di partenza è già piccolissimo, un cubo di un millimetro per lato che viene trattato con numerose sostanze che ai non esperti possono far pensare agli ingredienti di un mago o di un alchimista: sali di metalli pesanti come osmio e uranio per “colorare” le componenti cellulari di interesse, poi risciacqui con acqua e alcol, infine una resina che penetra nel campione e che, dopo un passaggio in forno di diversi giorni, lo renderà utilizzabile. Il calore fa indurire il campione, che assume un aspetto simile all’ambra. Ma le dimensioni sono ancora troppo “grandi” per l’osservazione al microscopio elettronico: dal campione vanno ricavate sezioni dello spessore di 50 nanometri, ottenute grazie a uno speciale strumento, l’ultra-microtomo, dotato di una lama di diamante.
«Queste operazioni richiedono molta precisione, che si acquisisce solo con l’esperienza. Sfido a trovare un microscopista elettronico che non si sia tagliato almeno una volta con il rasoio preparando il campione per l’ultra-microtomo! Ammetto che l’attenzione al dettaglio influenza anche la mia vita quotidiana, quando appendo un quadro, taglio il salame o abbatto l’abete secco in giardino… Scherzi a parte, questa branca della ricerca biomedica non è solo estremamente affascinante, ma anche molto utile: non solo nella comprensione dei meccanismi di base, ma anche per confermare una diagnosi, oppure per capire se una terapia funziona. Fondazione Telethon ha fatto un investimento molto lungimirante creando un’unità dedicata nel proprio istituto».
Per saperne di più sulla malattia di Wilson puoi consultare la scheda malattia sul nostro sito. Per entrare in contatto con chi affronta questa malattia ogni giorno, pazienti o familiari, puoi inoltre contattare l’Associazione Nazionale Malattia di Wilson Onlus, una delle Associazioni in rete di Fondazione Telethon.