Sono gli organoidi sviluppati nell’ambito del progetto di ricerca di Nicola Elvassore, finanziato da Fondazione Telethon. Obiettivo: capire che cosa succede esattamente con lo spegnimento del gene coinvolto nella sindrome dell’X fragile.
C’è un momento in cui gira quasi la testa durante l’intervista che facciamo a Nicola Elvassore perché ci racconti del suo progetto di ricerca sulla sindrome dell’X fragile finanziato da Fondazione Telethon. L’occasione è la celebrazione della Giornata europea dedicata a questa sindrome, la forma più frequente di disabilità intellettiva di tipo ereditario, che cade il prossimo 10 ottobre. Elvassore, ingegnere chimico di formazione, è professore all’Università di Padova e responsabile di un gruppo di ricerca di bioingegneria all’Istituto veneto di medicina molecolare. A far girare la testa ascoltando le sue parole sono da un lato la consapevolezza di quanto sia complessa questa malattia e, dall’altro, la meraviglia per le tecnologie che Elvassore e i suoi collaboratori, tra i quali la neuroscienziata Cecilia Laterza, hanno messo in piedi per studiarla meglio.
Sindrome dell’X fragile: la causa
In parole molto semplici, la sindrome dell’X fragile è causata da mutazioni in un gene (FMR1), che impediscono la produzione della proteina FMRP: una proteina critica per lo sviluppo e il corretto funzionamento delle cellule nervose.
“La mutazione consiste nella ripetizione eccessiva di una determinata sequenza del gene costituita da tre specifiche basi azotate (i mattoncini chimici che costituiscono la molecola di Dna)” spiega Elvassore. “Si distinguono una condizione di premutazione, in cui il numero di ripetizioni è superiore al normale ma non particolarmente eccessivo, e una condizione di mutazione piena, quando le triplette ripetute sono più di 200”.
L’espansione comporta una riorganizzazione della struttura del gene, che lo rende inaccessibile al ‘macchinario’ cellulare deputato all’avvio del percorso che dovrebbe portare alla sintesi della proteina corrispondete. “In pratica – specifica Elvassore – il gene è spento o, come diciamo noi, silenziato e la proteina corrispondente non viene più prodotta”.
Una malattia difficile da studiare
Un primo aspetto che rende molto difficile studiare i meccanismi molecolari alla base della sindrome dell’X fragile è il fatto che il silenziamento del gene FMR1 avviene già durante lo sviluppo prenatale, tra il terzo e quarto mese di gravidanza. “Un momento in cui l’individuo colpito è inaccessibile ed è impossibile seguire passo dopo passo che cosa succede” chiarisce il ricercatore.
“Come se non bastasse, non sappiamo se questo silenziamento avvenga ovunque nel sistema nervoso embrionale in sviluppo, o solo in alcuni gruppi di cellule, e se eventualmente esistono gruppi di cellule per i quali lo spegnimento del gene è più significativo che per altri rispetto allo sviluppo della malattia”.
Il modello ideale
Di fronte a tanta complessità è fondamentale disporre di un modello adeguato a condurre gli esperimenti. “Le classiche colture di cellule in due dimensioni e i modelli animali non sono molto utili per questa sindrome, così abbiamo pensato ad altro” racconta Elvassore. L’altro in questione sono i cosiddetti organoidi, ricostruzioni tridimensionali di tessuti che costituiscono una delle tecnologie più all’avanguardia nella ricerca biologica contemporanea.
Quelli di Elvassore li potremmo chiamare mini-cervelli, ma non dobbiamo immaginare una serie di provette con dentro cervellini umani in miniatura.
Il punto di partenza sono fibroblasti, cioè cellule del tessuto connettivo, prelevati da pazienti con la sindrome dell’X fragile. Queste cellule vengono riprogrammate in cellule staminali di tipo embrionale, che in seguito potranno essere spinte a differenziarsi in tessuti differenti grazie all’immersione in cocktail di diversi tipi di molecole. La tecnica base di riprogrammazione è valsa ai suoi ideatori Shinya Yamanaka e John Gurdon il premio Nobel per la medicina nel 2012. Negli anni successivi, Elvassore e colleghi l’hanno modificata per ottenere le cellule di tipo embrionale più adatte ai loro scopi. “Sono cellule con caratteristiche simili a quelle di un embrione nei primissimi giorni di vita, prima ancora che avvenga l’impianto in utero”, spiega. “Un aspetto molto rilevante è il fatto che in queste cellule il gene FMR1 non si è ancora silenziato”.
Capire la sindrome dell'X fragile: il primo passo per agire
Nell’ambito del progetto finanziato da Fondazione Telethon, Elvassore, Laterza e colleghi hanno già sviluppato una batteria di un migliaio di mini-cervelli rappresentativi in particolare della corteccia cerebrale, “perché è la zona che riteniamo più coinvolta nella malattia”. L’obiettivo è farli sviluppare per circa un anno, analizzandone periodicamente varie caratteristiche genetiche e molecolari per valutare le dinamiche nella regolazione della proteina FMRP: quando, dove e come si spegne il gene corrispondete, se ci sono variazioni nei livelli della proteina e così via.
“Crediamo che questo ci aiuterà a capire esattamente in che modo quello che succede durante lo sviluppo embrionale del tessuto nervoso si traduca nei sintomi della malattia e, di conseguenza, a individuare nuovi possibili bersagli terapeutici” conclude il ricercatore. “Inoltre, pensiamo che in futuro i nostri mini-cervelli potranno essere utili per testare possibili nuovi farmaci e verificarne l’efficacia in momenti diversi”.
Per le persone che affrontano la sindrome dell'X fragile, segnaliamo l’Associazione Italiana Sindrome X-fragile e l’Associazione Ligure Sindrome X-Fragile. Entrambe fanno parte delle Associazioni in Rete di Fondazione Telethon.