Tre copie di un cromosoma invece di due. La causa della sindrome di Down risiede proprio qui, nella cosiddetta trisomia 21, malattia che colpisce in Italia circa un bambino ogni 1000 nati.
Oggi la maggior parte delle diagnosi per questa alterazione genetica avviene in epoca prenatale, ma non esistendo una terapia specifica per i nati con questa condizione, quello che si può fare in modo tempestivo è cercare di migliorare notevolmente la durata e la qualità della vita delle persone. La sindrome di Down rappresenta la causa più frequente di disabilità intellettiva: le reti neuronali del cervello presentano difetti di comunicazione inficiando così i processi di memoria e di apprendimento.
Ne parliamo con Laura Cancedda, tra i protagonisti del programma carriere di Fondazione Telethon intitolato a Renato Dulbecco (Dti) e ricercatrice dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Genova.
Lei si è sempre occupata di ricerca di base nel campo delle neuroscienze, poi un giorno ha deciso di applicare le sue conoscenze alla sindrome di Down, perché?
«Sono laureata in chimica farmaceutica e l’interesse per i farmaci e la loro azione sulle malattie mi ha sempre affascinato e incuriosito. Mi sono occupata di ricerca studiando lo sviluppo del cervello in situazioni normali in assenza di malattie, e in particolare studiavo il sistema inibitorio del cervello. Poi un giorno ho assistito alla presentazione di alcuni dati sulla sindrome di Down. Lì mi si è accesa la famosa lampadina e ho iniziato a pensare che quello per cui avevo sempre lavorato potesse essere applicato a qualcosa di concreto come questa malattia».
In quel momento ha capito subito che avrebbe potuto fare qualcosa di utile per le persone con sindrome di Down?
«Lavorando all’IIT ho la fortuna di avere molte contaminazioni anche da ambiti diversi dal mio. Appena rientrata da quel congresso mi sono subito rivolta a un ricercatore dell’IIT che si occupava da molto tempo di questa patologia, Andrea Contestabile, che ora lavora nel mio team. Subito è nata l’idea di disegnare un progetto che prevedesse la somministrazione di un farmaco già in uso clinico e utilizzato da anni come diuretico, il bumetanide. Volevamo provare, e al momento ne abbiamo confermato l’efficacia sul modello murino, che questo farmaco avrebbe potuto migliorare notevolmente i disturbi cognitivi legati all’alterazione genetica del cromosoma 21. Dalla ricerca di base mi sembra di aver fatto qualche passo avanti verso i pazienti. E ora siamo finalmente pronti per partire con lo studio clinico in collaborazione con l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma».
Cosa rappresentano per lei le persone con sindrome di Down e le loro famiglie?
«Spesso sono invitata dalle associazioni di pazienti per parlare della mia ricerca ed è una cosa che faccio sempre molto volentieri. Mi rendo conto di quanto le persone credano nel lavoro che faccio e questo è veramente molto motivante. Parlare con loro può dare anche delle idee: abbiamo capito ad esempio che i disturbi del sonno comportano un disagio importante per l'equilibrio familiare e una situazione di difficoltà aggiuntiva allo sviluppo cognitivo e relazionale delle persone con sindrome di Down, inficiando moltissimo sulla qualità della vita dei pazienti e delle famiglie stesse. Così nel progetto finanziato da Fondazione Telethon abbiamo inserito una parte dedicata proprio allo studio del sonno e che svilupperemo in collaborazione con il gruppo di Valter Tucci sempre dell’IIT».
Collaborare con altri ricercatori sembra essere fondamentale…
«Se da un lato il finanziamento Telethon mi aiuta molto a essere concreta perché applico le mie conoscenze allo studio dei meccanismi che regolano il deficit cognitivo della sindrome di Down, dall’altra parte lavorare all’IIT mi dà la possibilità di collaborare ad esempio anche con il gruppo di Marco De Vivo al dipartimento di Drug Discovery per scoprire un farmaco che funzioni come il bumetanide ma che limiti gli effetti collaterali di diuresi. Sono convinta che tutti i progetti, i risultati ottenuti e le sfide future sono possibili solo grazie all’interdisciplinarità e alla cooperazione con altri ricercatori e medici».