Questa rara e gravissima malattia da accumulo è la candidata per testare per la prima volta una nuova classe di potenziali farmaci dall’effetto neuroprotettivo, applicabili anche in altre malattie neurodegenerative.
Immagina Alzheimer e demenza in un bambino. In breve, questa è la sindrome di Sanfilippo». È così che l’associazione di pazienti Sanfilippo Fighters definisce questa rara malattia metabolica, nota anche come mucopolisaccaridosi di tipo 3 (MPS 3).
Come tutte le malattie da accumulo lisosomiale, è dovuta alla mancanza di un enzima responsabile dello smaltimento di una sostanza di scarto, che in questo caso si accumula in particolare nel cervello. Già intorno ai 3 anni questi bambini perdono tutte le capacità acquisite e vanno incontro a convulsioni, disturbi del movimento, decadimento cognitivo, con un’aspettativa di vita che raramente supera i vent’anni.
Tra le varie forme di mucopolisaccaridosi, dovute al difetto della degradazione di sostanze chiamate glicosaminoglicani, questa è una delle più gravi e devastanti e al momento non esistono cure specifiche. Ma la ricerca al riguardo è tutt’altro che ferma, anche grazie al supporto della comunità dei pazienti.
La sfida più grande per i ricercatori è trovare il modo di far arrivare l’enzima mancante al cervello: non basta purtroppo somministrarlo attraverso il sangue, perché verrebbe bloccato dalla barriera emato-encefalica, che limita il passaggio di tantissime sostanze, inclusi i farmaci. Un modo per aggirare questo ostacolo, che è attualmente in fase di sperimentazione clinica, è quello di modificare l’enzima e permettergli di passare la barriera in maniera più efficiente.
Una strategia alternativa è la terapia genica, che attraverso dei vettori virali permette di fornire alle cellule nervose le informazioni genetiche per l’enzima carente. Sono già in corso diverse sperimentazioni sui pazienti con sindrome di Sanfilippo, basate su approcci “in vivo”, in cui il vettore viene somministrato nel sangue, nel liquor cerebro-spinale oppure direttamente nel cervello.
È invece di tipo “ex vivo” la terapia genica messa a punto dai ricercatori dell’SR-Tiget per la forma più grave di MPS 1: in questo caso la correzione con il vettore avviene al di fuori dell’organismo, su cellule staminali del sangue prelevate dal paziente e poi reinfuse dopo la correzione: i primi risultati sui pazienti sono stati positivi, ma la sperimentazione è ancora in corso.
Come spiega Alessandro Fraldi, responsabile di un gruppo di ricerca al CEINGE di Napoli e professore associato di Istologia all’Università “Federico II” di Napoli, «ci sono ancora molti ostacoli nell’applicazione della terapia genica alla sindrome di Sanfilippo e altre forme neurodegenerative di MPS. I dati ottenuti nei modelli animali sono positivi, ma quando si passa all’uomo non è facile raggiungere e mantenere un livello sufficiente di enzima nel cervello e, al contempo, evitare potenziali effetti tossici dovuti, ad esempio, a dosi elevate di vettore virale. Inoltre, ogni forma di MPS è dovuta alla carenza di un enzima diverso: ogni terapia genica è per definizione specifica e questo naturalmente ne alza i costi di sviluppo, un aspetto non secondario che riguarda un po’ tutte le malattie rare. La terapia genica resta comunque una delle strategie più promettenti e siamo tutti in attesa di vederne i risultati nei prossimi anni».
Accanto alla terapia genica, però, c’è una strategia complementare che potrebbe non solo “aggredire” la malattia da un altro punto di vista, ma addirittura potenziare gli effetti della stessa terapia genica. Come spiega Fraldi, che prima di arrivare al CEINGE ha lavorato per molti anni all’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) e si occupa da sempre di meccanismi neurogenerativi e malattie da accumulo lisosomiale, «la chiave sta nelle “pinzette molecolari”, piccole molecole disegnate ad hoc che inibiscono l’accumulo di un’altra sostanza tossica, l’amiloide. Accumuli di questa proteina sono presenti in numerose malattie neurodegenerative, da altre forme di mucopolisaccaridosi all’ Alzheimer: bloccandoli è come se mettessimo un freno alla neurodegenerazione, limitando un effetto tossico a valle del difetto genetico primario. Abbiamo dimostrato nel modello murino della forma più frequente di Sanfilippo, la 3A, che questi farmaci non solo proteggono dalla neurodegenerazione, ma se somministrati in combinazione con la terapia genica ne potenziano l’effetto terapeutico: di fatto, si contrastano i danni della malattia da due strade distinte. Inoltre, abbiamo dimostrato questo effetto protettivo anche in altri modelli di MPS, come la 1, la 3B e la 3C. Questi risultati, appena pubblicati su Molecular Therapy, ci fanno ben sperare di poter valutare presto l’effetto di questi nuovi farmaci nell’uomo».
Di strada da fare ce n’è ancora molta. «Dal punto di vista conoscitivo - spiega Fraldi - dovremo approfondire i meccanismi biologici con cui gli aggregati di proteina amiloide alterano l’omeostasi cellulare danneggiando i neuroni e gli astrociti, le cellule del sistema nervoso che hanno un ruolo chiave nella sindrome».
Importante in questo senso è stato il supporto dell’associazione Sanfilippo Fighters, che fa parte della rete Telethon e nel 2021 ha finanziato il progetto di Fraldi selezionato nell’ambito del seed grant (l’iniziativa con cui Telethon mette a disposizione le proprie competenze nella valutazione della ricerca per quelle associazioni che vogliano investire le proprie risorse attraverso una selezione meritocratica e competitiva). Un seme che è “germogliato”, tanto che nel 2023 Fraldi ha ottenuto un nuovo finanziamento, questa volta nell’ambito del bando multi-round di Fondazione Telethon.
«Per quanto riguarda invece la prima sperimentazione nell’uomo - conclude il ricercatore - dobbiamo affinare la produzione del farmaco su larga scala e completare gli studi sulla tossicità e la distribuzione nell’organismo. Sono molecole mai testate finora sui pazienti, ma confidiamo di completare questi studi entro tre anni, con il supporto di importanti finanziamenti internazionali. La nostra speranza è innanzitutto quella di ottenere un beneficio nei bambini con MPS 3A, ma in prospettiva l’impatto di questi nuovi farmaci potrebbe essere ben più ampio e riguardare svariate malattie neurodegenerative, non solo genetiche».