Le sue cellule sono tra le più specializzate dell’organismo, gioielli biologici che la natura ha perfezionato nel corso dell’evoluzione: è la retina, la membrana più interna dell’occhio che consente di captare i segnali luminosi e trasferirli al cervello per trasformarli in informazioni visive. Talvolta, però, un singolo errore nel Dna può impedirne il corretto funzionamento: è quanto accade in un folto gruppo di malattie note come retinopatie ereditarie.
«Degenerative e progressive, possono rendere ciechi già entro l’adolescenza» spiega Francesca Simonelli della Seconda Università di Napoli. «Al momento non ci sono cure, ma è importante conoscerle e diagnosticarle precocemente. Soltanto così possiamo insegnare a questi pazienti come sfruttare al meglio la poca capacità visiva rimasta per usare il computer, leggere, muoversi nello spazio. Inoltre, conoscendo lo specifico difetto responsabile della loro malattia possiamo dare indicazioni pratiche da seguire nella vita quotidiana, ma soprattutto inserirli in eventuali studi clinici. Questa carta di identità genetica, che nell’immediato può sembrare inutile, è un vero investimento per il futuro».
Lo conferma la storia recente: proprio Simonelli e il team dei ricercatori dell’Istituto Telethon di genetica e medicina Napoli (Tigem) hanno preso parte al primo studio clinico al mondo per testare la terapia genica contro l’amaurosi congenita di Leber. Questa malattia appartiene al gruppo delle retiniti pigmentose, che colpiscono la periferia della retina e portano a un progressivo restringimento del campo visivo. In collaborazione con il Children’s Hospital di Philadelphia, i ricercatori napoletani sono riusciti a fornire una versione corretta del gene difettoso grazie a un virus, ingegnerizzato in laboratorio in modo da essere innocuo ma ancora capace di inserire il proprio patrimonio genetico nella cellula bersaglio. A più di tre anni dall’avvio della sperimentazione, la terapia genica ha dato ottimi risultati, dimostrandosi sicura e capace di migliorare le capacità visive, soprattutto se effettuata precocemente.
«Forti di questo primo successo stiamo provando ad applicarla a una forma ancora più grave di amaurosi, che richiede vettori virali più efficienti» spiega Enrico Maria Surace del Tigem. «In parallelo stiamo lavorando su forme di retinite pigmentosa particolarmente problematiche, quelle a trasmissione autosomica dominante, in cui basta ricevere il gene difettoso da uno dei genitori - malato a sua volta - per sviluppare la malattia. Queste forme determinano non l’assenza di una proteina, ma la presenza di una variante anomala tossica. Non serve quindi fornire al paziente una copia del gene sano: piuttosto, bisogna “spegnere” quello difettoso e questo è molto più difficile, tanto che ad oggi in pochi hanno investito nella ricerca in questo ambito, nonostante circa un terzo delle malattie genetiche sia a eredità autosomica dominante».
Surace e il suo gruppo sono però riusciti a costruire un “interruttore universale” per il gene più frequentemente alterato in questa malattia, quello della rodopsina: «Nel modello animale abbiamo inattivato con successo questo gene nella retina. Prossimo passo sarà fornire, oltre all’interruttore, anche il gene sano e ricostituire così la funzionalità completa».
Sempre sulle forme dominanti di retinite pigmentosa si concentra il lavoro di Francesca Fanelli, ricercatrice dell’Istituto Telethon Dulbecco presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, che si svolge al computer anziché al bancone: «Abbiamo costruito modelli molecolari della rodopsina in forma sia normale sia patogena, su cui testeremo milioni di composti chimici già in commercio. In base alla loro capacità di correggere il difetto strutturale dovuto alla mutazione, selezioneremo i possibili farmaci candidati».
La palla passerà così a Valeria Marigo, che presso lo stesso ateneo valuterà su modelli viventi la capacità di questi farmaci di ripristinare l’attività normale della rodopsina, grazie soprattutto alle conoscenze sviluppate in questi anni sui meccanismi che portano alla morte delle cellule della retina.
Tornando alla terapia genica, un’altra difficoltà è rappresentata dalla capienza del vettore: lo sa bene Alberto Auricchio, che da anni al Tigem sta cercando dei sistemi di trasporto per geni di grosse dimensioni come quelli alterati nella sindrome di Stargardt (la più comune degenerazione ereditaria della macula, la porzione centrale dell’occhio) e di Usher di tipo 1, una forma di retinite pigmentosa associata anche a sordità.
«Stiamo provando a superare il problema in due modi: utilizzando due piccoli virus contenenti due frammenti distinti del gene da far poi ricomporre nella retina del paziente, oppure selezionando tra i virus più “capienti” quelli più efficienti nell’infezione della retina».
Sempre al Tigem Sandro Banfi studia invece il ruolo nella retina dei micro-Rna, piccole molecole naturalmente coinvolte nella regolazione dell’attività dei geni, da sfruttare eventualmente per potenziare o modulare la terapia genica stessa.
Buona parte delle malattie genetiche che colpiscono gli occhi è dovuta a difetti nei mitocondri, le centrali energetiche delle cellule (vedi numero scorso): è quanto avviene per esempio nell’atrofia ottica di Leber che, come spiega Valerio Carelli dell’Università di Bologna. «Si manifesta verso i 15-20 anni e porta velocemente alla cecità a causa della progressiva degenerazione del nervo ottico, il “cavo elettrico” che collega la retina al cervello. Poiché le informazioni per questa proteina si trovano nel Dna dei mitocondri, l’ereditarietà non segue le regole della genetica classica. Nonostante sia nota da oltre 20 anni - è la prima malattia associata a difetti del Dna mitocondriale mai identificata - è ancora piuttosto misteriosa: a parità di difetto genetico, alcuni pazienti si ammalano e altri no, mentre i maschi sembrano essere più suscettibili delle femmine». Per capire come mai - e migliorare diagnosi e possibilità terapeutiche - non c’è che una strada: la ricerca di base.