Si basa sull’inibizione di due piccole molecole di RNA direttamente nella retina: molto promettenti i risultati ottenuti in modelli preclinici da ricercatori del Tigem.
Tutti i pazienti con una distrofia ereditaria della retina hanno guardato con speranza all’approvazione, già alcuni anni fa, della prima terapia genica per una malattia oculare: il farmaco Luxturna, specifico per distrofie causate da mutazioni in un gene chiamato RPE65. Ripetere quel successo per altre forme di distrofia, però, non è affatto immediato. Si tratta infatti di un gruppo di diverse forme cliniche di malattia, tutte caratterizzate dalla morte dei fotorecettori, le cellule della retina che convertono lo stimolo luminoso in uno stimolo elettrico, con conseguente perdita di visione fino ad arrivare alla cecità. Le cause molecolari alla base di queste manifestazioni, però, possono essere molto diverse, tanto che sono stati identificati oltre 250 geni coinvolti. Per questo è necessario pensare ad approcci terapeutici alternativi, indipendenti dalla mutazione responsabile della malattia. Esattamente quanto sta cercando di fare il gruppo di ricerca guidato da Sandro Banfi all’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli, che ha appena pubblicato sulla rivista “EMBO Molecular Medicine” risultati decisamente promettenti in questa direzione.
Al centro di questo lavoro ci sono due piccole molecole di RNA – i micro RNA miR-181a e miR-181b – di cui Banfi e colleghi studiano da tempo il coinvolgimento nello sviluppo e funzionalità della retina. «Sono molecole regolatorie, capaci di modulare l’attività di numerosi geni coinvolti in processi cellulari differenti» spiega il ricercatore, che è anche professore di genetica medica all’Università della Campania “Vanvitelli” di Napoli. «In particolare, con studi precedenti ne abbiamo suggerito il coinvolgimento in malattie mitocondriali. Ora: le distrofie retiniche non sono strettamente classificate come tali ma si sa che, indipendentemente dalla mutazione responsabile, hanno un impatto anche sulla funzionalità dei mitocondri (le centrali energetiche della cellula), la cui alterazione è probabilmente tra i fattori che contribuiscono alla morte dei fotorecettori. Da qui, l’ipotesi che agire sui due miR-181 possa avere un effetto terapeutico».
Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno provato a inibire l’attività dei due piccoli RNA in due diversi modelli preclinici di distrofie della retina, caratterizzati da mutazioni differenti e con manifestazioni di diversa gravità. «In entrambi i casi, abbiamo osservato che questa inibizione comporta un effetto protettivo sulla retina, rallentando in modo significativo la progressione della malattia», afferma Banfi. Per inibire le due molecole, è stato utilizzato un sistema molto sofisticato basato sull’inoculo nella retina di un vettore virale (una sorta di taxi molecolare costituito dal materiale genetico di un virus opportunamente modificato) contenente una sequenza simile a quella dei due piccoli RNA. «Proprio perché la riconoscono come simile, i due RNA si legano ad essa, rimanendo quindi bloccati».
Si tratta di risultati molto interessanti, proprio perché l’inibizione sembra funzionare su diverse forme di distrofia retinica. «In futuro, potrebbe essere utilizzata come terapia in sé, ma anche come “ponte” nell’attesa che sia disponibile una terapia genica più specifica» commenta Banfi. Prima di arrivare a questo punto, però, è necessario raccogliere altri dati di efficacia ma soprattutto di sicurezza, sempre in modelli preclinici. Se tutto andrà bene, si passerà alla clinica. «Stiamo già cercando di ottenere fondi per questo passaggio, ma la strada è ancora lunga. Nel frattempo, lavoriamo anche allo sviluppo di altre modalità di inibizione, che possano rendere meno invasiva per il paziente la somministrazione della terapia». Come sempre per i ricercatori di Fondazione Telethon, il lavoro continua.