«Perché anche altre possano sapere cosa significa diventare una madre finalmente normale, che come le altre madri porta il figlio a scuola, al parco, a giocare a basket. Perché io lo sono diventata dopo che Samuel ha provato dolore, fino all’infusione del nuovo midollo».
C’è una ragione in più per cui, se a dirlo è Nicoletta, vale la pena donare il 5 per mille a Telethon. Fa l’educatrice in un asilo nido, e suo figlio è l’unico bambino italiano (con sindrome di Wiskott-Aldrich) guarito grazie alla terapia genica: significa che, grazie a una sperimentazione clinica del Tiget, gli è stata impiantata una copia sana del gene malato nelle cellule del sangue.
Oggi che lui ha 10 anni, e sta bene, lei si sente «un medico, una tuttologa, un’eroina tutte insieme». La prima cosa che ha fatto, con Samuel fuori pericolo, è stato restituirgli il sorriso per troppo tempo perso. Regalandogli un animale. «In cura non poteva averne. Quando questo piccolo criceto è morto, lui piangeva: “È perché non l’abbiamo portato dal professor Alessandro Aiuti al Tiget!”». A volte a Roma capita sotto al cartellone stradale che ritrae la sua faccia e la sua storia di successo, per raccogliere fondi, e si intimidisce. Lo fa ancora oggi che ogni rischio è scongiurato e che non deve più fare «un prelievo a settimana, portare il casco per evitare traumi quando esce, stare fermo con tutta la mia ansia addosso, mentre le piastrine nel suo corpo diminuiscono», racconta tutto d’un fiato Nicoletta.
E pensare che il miracolo si è compiuto come «ultima spiaggia»: «Venivamo da anni di controlli, al bambino era venuta una psicosi, dovuta alla continua ospedalizzazione. Era il periodo in cui mandavo mail a qualunque indirizzo, perfino a Boston. Non mi convincevano le diagnosi, volevo trovare una soluzione a tutti i costi, convinsi il papà a fare gli ultimi controlli ematologici e immunologici. Ci capitò un dottore di Roma che intuì qualcosa. Spedì il campione di sangue all’Istituto Telethon per la terapia genica di Milano, e così prendemmo la via per la salvezza».
Quando Samuel fa attività sportiva, sul certificato c’è scritto ancora che non è sano: «Ma non è un bambino che si mette in pericolo: ha conosciuto le corsie d’ospedale, l’hanno condizionato. Non ha corso fino a 6 anni, è pieno di voglia di recuperare, ma è responsabile». Essere genitore di un figlio malato è condizione che ti segna: «All’inizio lo proteggevo di più, adesso è la sorella minore Kaya, portatrice sana del gene was, a essere protettiva nei confronti del fratello. Lo difende. Se lo vede arrampicarsi, mi tira la maglia: “Mamma, guarda un po’ lì”. Quando un giorno Samuel ha dato di stomaco, lei ha avuto paura che non ci fosse più niente da festeggiare, che tutto fosse di nuovo da rifare».
Gli esami a Milano, oggi una volta l’anno, sono come una vacanza: «Si sdraia sul lettino, e lì resta, come fosse la sua seconda casa. Quando uscii dal Tiget, ai tempi, lasciai una lettera alla mamma a cui sarebbe toccato essere forte dopo di me. Era una donna turca, la scrissi in italiano, so che gliel’hanno tradotta. Tentavo di rassicurarla: “Sembra un trauma cattivo e ingiusto, ma qui dentro sono bravi, sensibili, umani, e in posti così non sempre è detto. Quindi, forza e coraggio, che tutto può andare per il verso giusto”».