«Quando lo portavamo fuori, per una semplice passeggiata, sembrava che avessimo qualcosa da nascondere. Camminavamo guardandoci intorno e, se vedevamo qualcuno venire nella nostra direzione, cambiavamo strada».
A parlare è Laura, la mamma di Daniele, un bimbo di 15 mesi affetto da fibrosi cistica. La circospezione, con cui affrontavano le già di per sé rare uscite familiari, aveva un'unica origine: il terrore che il piccolo potesse prendere una "banale" infezione.
Per qualunque bimbo non sarebbe stato un problema. Per chi, come Daniele, deve fare i conti con un apparato respiratorio compromesso dalla malattia, un raffreddore è uno scenario drammatico.
Nei suoi primi mesi di vita, Laura e Andrea, il papà, si lavano le mani con una frequenza maniacale, girano per casa con la mascherina, eliminano quasi ogni rapporto con gli amici e parenti. Che, per altro, non si fanno troppi problemi a sparire. Chi per paura, chi per fastidio. Perché Daniele, a guardarlo, è bello, grande, sano. E siccome nessuno gli va a guardare nei polmoni, in più di qualcuno si sente autorizzato a classificare le attenzioni dei genitori tra le esagerazioni di una coppia iperprotettiva.
Alla disperazione per una diagnosi che di speranza ne lascia poca, si aggiungono la tristezza della solitudine e lo sconforto di non essere capiti. Di essere presi per paranoici.
L’inversione di rotta arriva dallo staff medico che prende in carico Daniele:
La nuova vita comincia tra gli scaffali di un centro commerciale. «È stato commovente: guardava tutto, voleva toccare tutto, era felice».
Adesso Daniele va al parco e, con mille precauzioni, si avvicina anche agli altri bimbi. A casa è arrivato un secondo frigorifero, solo per le sue medicine; ma la mascherina è finita nell’armadio e quando gioca con Andrea non si sa più chi dei due sia il bambino. Laura e Daniele lottano ogni giorno perché il loro Daniele possa gridare IO ESISTO.