Spiega Antonio Fontana, consigliere AIHER: «Il progetto è nato per dare la possibilità alle persone coinvolte di esprimersi, di rielaborare e condividere la propria esperienza».
Prendersi cura di chi si ama è un naturale desiderio, ma spesso per chi è accanto a una persona con una malattia genetica rara diventa anche una sfida, emotivamente e fisicamente impegnativa. L’Associazione Italiana Huntington Emilia Romagna - AIHER Odv ha scelto di portare avanti un importante progetto, sostenuto dalla Fondazione di Modena, dal titolo: “Malattia di Huntington e patologie neurodegenerative: una danza tra destino e speranza. Formare una comunità che cura”.
«Il progetto – ci ha spiegato Antonio Fontana, consigliere AIHER – è nato per dare la possibilità alle persone coinvolte nella malattia di Huntington, pazienti e caregiver, di esprimersi, di rielaborare e condividere la propria esperienza. Abbiamo creato un gruppo di lavoro con l’aiuto del prof. Alastra, che ha realizzato diversi studi sulla medicina narrativa. Tra i nostri obiettivi, anche quello di coinvolgere i volontari di Telefono Amico Italia, dando loro degli strumenti in più per interloquire con persone coinvolte con malattie neurodegenerative gravi. Infine, ma non da ultimo, alla base del progetto c’è la volontà di sensibilizzare la comunità esterna sulle molteplici problematiche che presenta la malattia di Huntington e di sollecitare la creazione dipercorsi individuali in cui si riconoscono e collaborano la persona malata, il caregiver, i professionisti sanitari e quelli dell’assistenza sociale».
A raccontarci più nel dettaglio metodologico il progetto e il lavoro svolto è proprio il prof. Vincenzo Alastra, dell’Università di Torino, psicologo ed esperto di medicina narrativa e responsabile scientifico del progetto: «Abbiamo invitato le persone a parlarci della loro esperienza attraverso il linguaggio poetico, scrivendo piccoli componimenti, scattando fotografie, commentando immagini evocative. Usare una modalità creativa permette di accedere direttamente ai mondi di significato delle persone, per dire cose che con il linguaggio normale è difficile dire.
Raccontare un’esperienza di cura e di malattia significa avere a che fare con aspetti molto profondi; quando raccontiamo, infatti, non siamo dei riproduttori passivi di quella esperienza cristallizzata, ma la analizziamo, le diamo un senso e, in una certa misura, interveniamo sugli stessi vissuti apportando trasformazioni, rielaborazioni. Il progetto, oltre a proporsi come spazio di ascolto e condivisione, ha l’ambizione di raccogliere queste testimonianze in una pubblicazione che completeremo in autunno, per tradursi in un’operazione di comunicazione sociale, per far comprendere a tutti cosa significhi vivere una situazione come la malattia di Huntington, che ha un carico emotivo di una portata pazzesca».
Marco Crespi, presidente AIHER e caregiver, che ha preso parte al progetto, ha dichiarato: «Non conoscevo la medicina narrativa ed è stata una bellissima scoperta. Le poesie aiutano a far venire fuori le emozioni con grandi risvolti positivi a livello psicologico, tra cui maggiore consapevolezza e leggerezza. Mia moglie ha la malattia di Huntington. A un certo punto della mia vita, mi sono trovato a fare i conti con qualcosa che non sapevo neanche cosa fosse. L’inizio è stato molto traumatico perché la prima reazione è stata la rabbia, finché non sono riuscito a fare il passo successivo e ad accettare la cosa. Nel momento in cui ho trovato un’associazione e un progetto narrativo di persone con le stesse problematiche è stato come essere in una casa con delle persone che ti ascoltano, ti comprendono».
«Questo progetto credo sia stato e sia molto importante perché ha permesso alle famiglie che affrontano la malattia di Huntington di fare rete – concorda Mariarosa Ponginebbi, consigliere AIHER e anche lei impegnata in prima persona nel caregiving – Condividere le nostre esperienze, metterci in relazione, insieme a qualcuno che ci potesse guidare e aiutare, è stato prezioso. Quando sei un caregiver, impegnato nella quotidianità, non rimane tanto tempo libero per lavorare su di te, finisci per annullarti, e sentirti in colpa se ti dedichi ad altro. E invece il lavoro su di sé è fondamentale perché se non hai degli spazi tuoi rigenerativi come fai ad occuparti dei tuoi cari?».
«Uno dei rischi maggiori del ruolo di caregiver – continua Marco – è quello di essere assorbiti, di chiudersi con la testa in una sorta di circolo vizioso. Scrivere una poesia, scattare una foto rappresentano una forma di cura alternativa. Questi momenti sono stati delle valvole di sfogo. Ad esempio, ho realizzato uno scatto in cui colgo un movimento di mia moglie simile a una danza. Lei era una ballerina, mi piace pensare che continua a fare ciò che ama».
«Noi eravamo quattro sorelle – racconta, invece, Mariarosa - non sapevamo di avere la malattia in famiglia. La prima sorella che ha manifestato i sintomi sotto i 40 anni è venuta a mancare a poco più di 50. Le mie altre due sorelle hanno scoperto di essere positive, io sono l’unica negativa. L’impatto emotivo di una malattia del genere su una famiglia è enorme. Raccontare i vissuti attraverso l’immagine o la poesia aiuta. Sono nati testi semplici, ma molto profondi. Credo che tutte le malattie e tutte le vite avrebbero bisogno di uno spazio di racconto».
Per rendere sempre più salda ed efficace la collaborazione delle Associazioni in Rete abbiamo scelto di condividere i progetti di successo, realizzati dalle organizzazioni vicine alla Fondazione, sui nostri spazi web. Vogliamo mettere a fattor comune idee e processi vincenti, da cui trarre ispirazione e nuovo entusiasmo. Fondazione Telethon dà visibilità ai progetti delle singole Associazioni, nati con l'obiettivo di migliorare la qualità di vita dei pazienti con una malattia genetica rara. Vogliamo così stimolare il confronto e la possibilità per tutti di entrare in contatto con le Associazioni o richiedere approfondimenti in merito alle iniziative raccontate.