Dalla sua esperienza personale all'impegno per le nuove generazioni: leggi le parole di Marco Rasconi, nato con l’atrofia muscolare spinale di tipo 2 e Presidente nazionale UILDM.
Diritto al punto. Quando parli con Marco Rasconi, nato con l’atrofia muscolare spinale di tipo 2 e attuale presidente nazionale dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare (Uildm), hai l’impressione che abbia tutto chiaro in mente e tenga la situazione sotto controllo. Ma anche lui cerca ancora risposte e la consapevolezza acquisita altro non è che il frutto di un cammino non sempre facile ma sicuramente contrassegnato dalla determinazione.
Se dovessi raccontarci la tua vita da dove partiresti?
«Ad essere sinceri non riesco a individuare un vero momento di partenza, ma diversi, che segnano varie fasi della mia esistenza. Potrei sicuramente dire il momento in cui mi è stata diagnosticata la malattia, sicuramente una parentesi complessa di sono stati protagonisti soprattutto i miei genitori, per passare poi agli inizi della mia carriera scolastica o al cambio di casa che mi ha permesso di conoscere i nuovi vicini che mi hanno introdotto alla Uildm. Non di minor importanza lo sport, che nella mia vita ha sempre avuto un ruolo fondamentale, o la prima vacanza da solo, e poi ovviamente il percorso all’interno dell’Associazione e il momento di nomina a Presidente Nazionale».
Partiamo allora dall’inizio: dove sei nato?
«A Milano e sono sempre vissuto qui. La mia mamma è milanese mentre mio padre è di Ferrara, trasferito qui per lavoro».
Tra incontri, opportunità, eventi che connotano la tua vita quale reputi sia stato quello che ha determinato una svolta fondamentale?
«Sicuramente l’incontro con la Uildm. In precedenza, non avevo conosciuto molte persone affette da distrofia, era difficile entrare in contatto con quello che potrei definire il mio mondo. Approdando in Associazione mi sono soprattutto reso conto della portata positiva dello sviluppo del lato sociale di questa condizione, della condivisione e della relazione con gli altri, rispetto all’aspetto sanitario che fino a quel momento aveva avuto il sopravvento. A introdurmi a Uildm sono stati proprio i miei vicini di casa, come dicevo in precedenza, entrambi con distrofia, quando io avevo circa dieci anni. Sono stati anni di scoperta, di nuove attività quando venivano gli obiettori di coscienza a portarci fuori, e di tanta importante comunicazione con il mondo esterno. Più grande, finita la scuola, ho passato molte estati in associazioni e rendermi utile, organizzare attività ma anche a divertirmi. Era un ambiente oramai molto familiare, dove incontrare altri giovani adulti con la mia patologia e in cui sentirmi bene».
Chi è oggi Marco Rasconi, a prescindere dalle funzioni, dalle responsabilità e dall’impegno all’interno di Uildm che ben conosciamo?
«Molti anni fa la mia sensazione prevalente era quella di essere diverso. Poi, successivamente, mi hanno insegnato che eravamo tutti uguali e ho accettato anche questa nuova condizione. Oggi sono in una fase ulteriormente differente, in cui considero la mia disabilità, o diversità, un plusvalore. Non dico che la mia vita sia meno difficoltosa di prima, e far collimare la patologia con il lavoro o con i rapporti personali mi costa fatica, ma distinguo di più l’aspetto professionale da quello privato».
«Io rappresento tutte quelle persone con disabilità che ad un certo punto della propria vita hanno incontrato un universo “altro”, nel mio caso l’Associazione, che li hanno aiutati a conquistare consapevolezza e delle belle opportunità e che oggi vogliono restituire quanto di positivo hanno ricevuto. Non mi sentirai mai dire che questo mondo fa schifo, bensì io credo che si possa sempre migliorare e per questo mi impegno, laddove altri forse si sarebbero arenati. Ognuno di noi è causa e soluzione al problema, sono fortemente convinto di questo principio».
A tuo avviso la condizione di disabilità ha acquisito una dignità diversa nell’ambito della società civile?
«Io faccio parte della seconda generazione di coloro che hanno condotto battaglie civili per vedersi riconosciuti diritti e rivendicare attenzione e rispetto in qualità di persone con disabilità. Non ha vissuto direttamente la prima stagione di “lotta” per quei diritti, se così possiamo dire, e come tutte le seconde generazioni il senso di rivalsa è meno accentuato. Io mi rendo conto di quello che è stato fatto da chi mi ha preceduto e di cui oggi beneficio. Se io oggi io posso muovermi in città autonomamente è anche grazie a loro. Quindi ritengo sia più utile, nella situazione in cui siamo, recriminare e indignarsi perché un bambino disabile in Calabria magari non riesce ad andare a scuola piuttosto che arrabbiarsi per qualche gradino in più nelle nostre metropoli. Ovvio che tutto sia perfettibile ma non bisogna rifugiarsi nei personalismi ma avere uno sguardo più ampio sulla situazione, anche prendendo le distanze da sé stessi se necessario. È più utile lottare per quanto manca del tutto in molte zone del nostro Paese che per quel 20% di carenze che può avere una città come Milano».
Che rapporto hai con Milano, la tua città?
«Devo dire molto buono, amo Milano, soprattutto da quando ho cominciato a viaggiare per la Uildm. Penso che la mia città sia assolutamente idonea ad accogliere persone con disabilità. Lo capisco ogni volta che mi sposto nell’ambito di altre realtà urbane, soprattutto nel sud del Paese, dove è veramente molto complesso muoversi. E poi, a prescindere da questo elemento, riesco a godere di quanto di bello Milano sia in grado di offrire».
Cosa conta davvero per Marco oggi?
«In termini associativi il fattore che mi preme di più è quello di non lasciare indietro nessuno. A livello personale sicuramente la famiglia, l’affettività, l’amore, le amicizie, che sono sempre meno ma più solide: quindi quello che conta per chiunque, penso. Il racconto della nostra vita non si discosta mai tanto da quello degli altri. Poi c’è ancora lo sport. In sostanza, essere invisibili per la disabilità e molto più visibili per quello che si ha. È questo che voglio trasmettere alle nuove generazioni».
Quanto sono impegnative le tue giornate?
«Chi lavora nel sociale, come me, non ha mai tregua, bisogna essere operativo sempre, anche quando gli altri staccano dal lavoro e ti chiamano. È evidente che in quel momento quelle persone stanno offrendo una parte di sé e tu non puoi non rispondere. Trascorro dei lunghi periodi rincorrendo gli impegni, se vedo un weekend libero è un miracolo. Questo è anche il risultato del fatto che nel sociale stiamo vivendo una crisi del volontariato e chi va avanti si trova sempre con più cose da fare. Occorre coinvolgere di più i giovani per dare una mano a chi, come me, sta diventando più “vecchio”».
Per concludere, qual è il tuo progetto per il futuro?
«Incontro molti giovani 18enni, anche stranieri, che hanno voglia di vivere e che per questo vanno ben guidati. A livello personale, invece, il mio progetto è cercare casa con la persona con cui sto da qualche anno, per organizzarsi una vita insieme e stare più vicini. Io non ho ambizioni eccessive, mi sento a servizio degli altri. Credo di aver ricevuto talmente tanto dall’Associazione che mi piacerebbe poter regalare qualcosa agli altri. A volte ci riesco pienamente, altre volte meno. Del resto, non tutte le persone con disabilità hanno senso civico e spesso i giovani nella mia situazione soffrono degli stessi malesseri di cui soffrono tutti i giovani. È un tema molto complesso ma va assolutamente affrontato, ne va del futuro di tutti e non possiamo trascurarlo».