Papà Daniele e mamma Chiara non si sono arresi alla notizia che la loro bimba era l’unica in Italia con una rarissima condizione genetica. Con l’aiuto di Telethon hanno cercato e trovato altre famiglie, mettendo infine queste relazioni a disposizione della ricerca.
Letizia porta la mano alla bocca e poi la solleva con leggerezza verso l’alto. È il suo modo per dire che vuole giocare con le bolle di sapone, gioielli effimeri che la bimba, tre anni, si diverte a regalare al cielo. Proprio come si diverte a regalare bacini a distanza ai suoi compagni d’asilo, ricambiando i loro. «Letizia non parla, ma grazie a questi gesti chi le sta accanto riesce a capirla e a comunicare con lei». Daniele, il papà, parla della figlia con un inconfondibile accento toscano e una gioia tale che, anche se siamo al telefono, sembra proprio di vederlo sorridere. E sarà così per tutto il tempo che passerà a raccontarci la storia della sua bambina: una storia intima, certo, ma anche una storia collettiva.
Perché papà Daniele e mamma Chiara non si sono fermati alla comunicazione che Letizia era l’unica in Italia e tra le pochissime al mondo con la sua condizione, ma si sono messi in moto per cercare altre famiglie con le quali condividere le difficoltà della vita con una malattia genetica rara. Una ricerca che, attraverso l’incontro con Fondazione Telethon e con il dottor Angelo Selicorni, ha portato anche a un importante avanzamento scientifico, raddoppiando il numero di casi descritti nel mondo con la stessa condizione.
Quando tutto è cambiato
«Ricordo con precisione la data in cui tutto è cambiato, perché era il giorno del nostro anniversario di matrimonio» racconta Daniele. «È stato il 24 settembre 2019. Chiara si stava preparando per andare al lavoro, io ero di riposo. Letizia, 15 mesi, aveva appena finito di bere un biberon di latte quando all’improvviso è diventata tutta rossa in viso e si è come pietrificata. Abbiamo pensato a un’ostruzione delle vie aeree e io ho praticato la manovra di disostruzione mentre Chiara chiamava il numero d’emergenza. Solo dopo abbiamo saputo che avevamo assistito alla sua prima crisi epilettica». Dopo una settimana senza crisi e con l’illusione che si fosse trattato di un episodio isolato l’epilessia è tornata e a fine novembre è esplosa in una serie di crisi che si succedevano una dietro l’altra a distanza di un paio d’ore: uno “stato di male”, come lo chiamano i medici. Solo dopo vari tentativi - e un ricovero durato 37 giorni all’ospedale Meyer di Firenze - si è trovato il cocktail giusto di farmaci per tenere a bada le crisi. “Oggi Letizia ne ha una o due al giorno, in genere mentre dorme» ricorda il papà.
Nel febbraio 2020, infine, è arrivata la diagnosi: sindrome genetica ultrarara con epilessia associata a mutazione del gene SMC1A. «Ci hanno detto che c’erano solo altre 10 bambine al mondo con questa condizione. Che Letizia era l’undicesima e unica in Italia. Di conseguenza, non ci hanno saputo dire niente su come sarebbe stata la progressione della malattia, che per il momento si era manifestata, oltre che con epilessia e mancanza della parola, con difficoltà motorie e disabilità cognitiva».
Il gene SMC1A, una vecchia conoscenza
«Il gene mutato di Letizia è noto da parecchi anni e nel 2006 proprio un gruppo di ricerca italiano, del quale anche io facevo parte, lo ha correlato alla sindrome di Cornelia de Lange. Si tratta di una rara sindrome caratterizzata da un aspetto tipico del viso, ritardo di crescita e dello sviluppo neuromotorio e cognitivo e possibile presenza di malformazioni e altre complicazioni mediche» spiega Angelo Selicorni. Il medico è direttore della pediatria dell’Ospedale Sant’Anna di Como, tra i massimi esperti internazionali della sindrome di Cornelia de Lange e tra i referenti clinici del Programma Malattie Senza Diagnosi di Fondazione Telethon.
«Con l’avvento delle tecniche di sequenziamento del dna, però, si è capito che un piccolo numero di pazienti con mutazioni di questo gene non presentavano le caratteristiche tipiche della sindrome di Cornelia de Lange, ma un quadro clinico differente, privo per esempio delle particolarità del viso. Abbiamo così cominciato a pensare all’esistenza di una nuova condizione ultrarara, che riguarda in particolare le bambine».
«Non possiamo essere gli unici»
Dopo la diagnosi, Daniele non riesce a credere che Letizia sia l’unica paziente in Italia con la sua condizione. «Ero convinto che dovesse esserci qualcun altro e ho cominciato a cercarlo. La svolta è arrivata grazie a Fondazione Telethon, che ci ha dato l’opportunità di condividere sulla sua pagina Facebook il nostro appello per la ricerca di altre famiglie e ci messo in contatto con il dottor Angelo Selicorni. Un angelo davvero, perché non solo ha contribuito a divulgare la notizia della nostra ricerca, ma quando ha saputo che avevamo conosciuto altre famiglie ha pensato che questa potesse essere la chiave per avviare una raccolta sistematica di dati sulle caratteristiche di queste pazienti». Un passo fondamentale, perché raccogliere dati serve a conoscere meglio la malattia e conoscere meglio la malattia è fondamentale per individuare le strategie di gestione più efficaci e avviare la ricerca di possibili terapie.
La raccolta e l’analisi dei dati è stata portata avanti con il contributo di una studentessa del dottor Selicorni, Elisabetta Gibellato, che ne ha fatto l’argomento della sua tesi di laurea in medicina e chirurgia, con relatore il professore Andrea Biondi dell’Università di Milano Bicocca e della Clinica pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Gibellato si è laureata con il massimo dei voti e la lode il primo luglio scorso.
L’unione, come sempre, fa la forza
«Conoscere, anche solo virtualmente, altre famiglie con bambine come Letizia per noi è stato un punto di svolta cruciale» ricorda Daniele, che oggi è in contatto con altre 3 famiglie italiane e 66 famiglie nel mondo. «Abbiamo creato un gruppo chiuso su Facebook e lo usiamo per confrontarci, confortarci, darci informazioni reciproche. Se per esempio arriva qualche manifestazione nuova chiediamo se è capitato anche ad altri, oppure segnaliamo eventuali reazioni particolari ai farmaci o a certi dosaggi di farmaci».
In assenza di descrizioni cliniche dettagliate della malattia, il confronto con le altre bimbe affette è l’unico modo che hanno per ora i genitori per immaginare come potranno evolvere le condizioni delle loro figlie. «Certo, c’è una forte variabilità. Alcune bambine stanno meglio, altre peggio. Alcune riescono a fare più cose, altre non si muovono e per alimentarsi hanno bisogno della Peg, un sistema di nutrizione che porta il cibo direttamente allo stomaco. Tutte però sono accomunate dalle crisi epilettiche, in genere resistenti ai farmaci, e dal fatto di non parlare. Questo ci spinge a non illuderci che un giorno Letizia possa parlare».
Conoscere una paziente di 36 anni è stato invece un grande sollievo. «Significa che anche con questa malattia si può diventare grandi e sapere che possiamo sperare di avere Letizia sempre con noi ci dà una grandissima forza. Come ci dà forza vedere i suoi piccoli progressi: i suoi primi passi, durante il periodo di lockdown e oggi sempre più sciolti e spediti, anche se non corre. Le sue prime pedalate con il triciclo. L’amore per le bolle di sapone».
Riaprirsi al mondo
E c’è un altro motivo per cui Daniele è grato alle relazioni che ha intessuto con le altre 70 famiglie. «All’inizio la diagnosi ci ha gettati nello sconforto. Ci siamo chiusi, non uscivamo più anche perché eravamo terrorizzati dall’idea che Letizia potesse avere una crisi in pubblico. Ci preoccupavamo di come avrebbero reagito gli altri. Incontrare le altre famiglie ci ha permesso di ritrovare una certa serenità e la voglia di riaprirci al mondo. E credo che questo abbia fatto un gran bene anche a Letizia, soprattutto da quando, su impulso anche delle sue terapiste, abbiamo deciso di mandarla all’asilo».
I primi tempi non sono stati facili. «Era più difficile per noi lasciarla andare che per le maestre accoglierla. Avevamo paura di come avrebbero reagito le maestre in caso di crisi epilettica (anche se non c’è nulla da fare se non aspettare che passi), di come l’avrebbero accolta gli altri bambini, di come avrebbe reagito lei al momento del pasto, che a casa è sempre un po’ complicato. Anche se aveva cominciato a mangiare cibo a pezzettini, da un anno circa Letizia è tornata a un’alimentazione prima liquida e poi semisolida e comunque a casa abbiamo bisogno di distrarla un po’ per riuscire ad alimentarla». Invece, procedendo con gradualità è andato tutto benissimo.
«Le terapie con la psicomotricista e la logopedista sono fondamentali per consentire a Letizia di fare progressi, ma abbiamo scoperto che lo è anche stare insieme ad altri bambini, dai quali Letizia impara moltissimo per imitazione. E loro sono stati meravigliosi nell’accoglierla. Le maestre ci hanno mostrato foto in cui i compagni la vanno a cercare, le cantano canzoncine, la invitano al girotondo, le mandano bacini: potete immaginare quanto ci siamo emozionati».
Le prime informazioni dalla raccolta dati
Per Chiara e Daniele questi progressi sono fonte di grande speranza. E lo sono anche i risultati della raccolta dati alla quale hanno contribuito mettendo a disposizione la loro rete di relazioni. «Finora erano descritti nella letteratura scientifica 30 casi con una condizione come quella di Letizia. Con il lavoro di Elisabetta Gibellato ne abbiamo aggiunti altri 37» afferma con giustificato orgoglio Selicorni.
«Il confronto tra tutte queste pazienti ha permesso di individuare l’età media alla quale acquisiscono le più comuni tappe di sviluppo, come stare sedute o muovere i primi passi, definire la prevalenza dell’epilessia (vicina al 100%) e raccogliere indicazioni sugli approcci terapeutici più efficaci. Per esempio, abbiamo osservato che una discreta quota di pazienti risponde in modo abbastanza soddisfacente alla dieta chetogenica. Inoltre, abbiamo raccolto una serie di indicazioni sulla gestione di disturbi aggiuntivi, come quelli gastrointestinali. Tutte informazioni che contiamo di condividere presto sia con le famiglie, anche come doverosa restituzione a chi è stato così generoso da regalarci il proprio tempo per rispondere ai nostri questionari, sia con la comunità scientifica internazionale».
Per Selicorni, questi primi risultati sono la dimostrazione di una verità molto semplice. «Con la giusta collaborazione tra clinici e famiglie, che in questo caso è stata possibile grazie alla mediazione di Fondazione Telethon, si possono fare velocemente passi in avanti che potrebbero sembrare piccoli, ma che sono importantissimi per le famiglie. Soprattutto nell’ambito delle condizioni ultrarare, questa collaborazione è la via più veloce per cominciare a dare qualche risposta».
Concorda papà Daniele, che intanto ha fondato l’Associazione SMC1A Italia. «Attraversare da soli le difficoltà della vita con una malattia genetica rara è molto difficile. Però ci sono persone che ci possono aiutare: persone come Alessandra Camerini (responsabile delle relazioni con le associazioni di pazienti di Fondazione Telethon), che ci ha contattati per prima, e come Angelo Selicorni, con cui Alessandra ci ha messi in contatto. Grazie a loro, con loro, possiamo sperare di arrivare dove desideriamo, cioè a una terapia. Magari potrebbe non servire per Letizia, ma ci aiuta molto sapere che con i nostri sforzi possiamo mettere un tassello che potrebbe essere d’aiuto ad altre bambine. Fondazione Telethon è l’arma in più per farlo: perché sostiene la ricerca e perché solo dalla ricerca può venire un aiuto».