Come la terapia genica messa a punto dai ricercatori Telethon ha offerto una nuova possibilità alle persone con la beta talassemia, o anemia mediterranea.

Salvatore con Giuliana Ferrari

Fin da piccolo, Salvatore è vissuto sotto una campana di vetro nel suo piccolo paese siciliano della provincia di Messina. Intorno ai tre anni, insospettito dal suo pallore e dalla febbre ricorrente, il suo medico sospetta un’anemia.

Dopo numerosi test e visite in giro per l’Italia, arriva la diagnosi: si tratta della forma più grave di talassemia, quella beta, particolarmente diffusa in alcune zone del mondo tra cui proprio il bacino del Mediterraneo (da cui l’espressione comune di “anemia mediterranea”).  

Nonostante la sua sia una forma grave, fino all’età di sette anni Salvatore riesce a evitare le trasfusioni periodiche di sangue. «Non potevo giocare a calcio o pallavolo, ma ho potuto dedicarmi alla danza, facevo le competizioni ed ero parte di un gruppo folkloristico – racconta. Il dover sempre dipendere dagli altri ha cominciato a pesarmi durante l’adolescenza, per esempio quando non avevo abbastanza forza per tirare il motorino fuori dal box. I miei genitori, pur apprensivi, mi hanno comunque trattato da persona normale. Anche se non ero preparato, a scuola ci andavo lo stesso e non dicevo di essere talassemico per non essere compatito».  

Il sogno della terapia genica 

Il vero problema è invece rappresentato dalla disponibilità del sangue: quando non ce n’è abbastanza e non si può trasfondere significa restare senza forze e non poter pianificare nulla, in attesa che finalmente qualche sacca sia disponibile. Questo nonostante nella sua piccola realtà si attivi anche la comunità, tra cui i vigili del fuoco colleghi di suo padre.

«Oggi non è più così, quelli erano altri tempi. Ad ogni modo, nessuno della mia famiglia era disposto ad accettare che trovare il sangue diventasse un secondo lavoro. I miei genitori hanno quindi deciso di trasferirsi a Milano con me e il mio fratello minore, Filippo».  

Da sempre Salvatore ha creduto nella possibilità che un giorno i ricercatori mettessero a punto una terapia definitiva, che permettesse di superare il ricorso periodico alle trasfusioni. «Quando ero bambino, passavo le vacanze in Liguria e in quel periodo ero seguito all’ospedale Galliera di Genova. Lì, una dottoressa speciale, che oggi purtroppo non c’è più, mi disse una cosa che mi avrebbe di lì in avanti sempre ispirato: di tenermi in salute, per farmi trovare pronto quando sarebbe arrivata la cura. Le ho dato ascolto, mangiando bene e facendo regolarmente attività fisica. Aveva un cuore enorme, non mi ha mai chiamato per nome, ma sempre “stella”. Quando sono arrivati i primi ferrochelanti, farmaci che prevengono l’accumulo di ferro negli organi interni a seguito delle continue trasfusioni, potevano esser somministrati solo con un’infusione con ago. Io ero troppo piccolo per farmela da solo: così la dottoressa, rivolgendosi alla mia giovane mamma, si tirò su la manica del camice e le disse di provare a farla a lei, per imparare».  

Il sogno che diventa realtà 

Molti anni dopo, l’auspicio della dottoressa genovese si trasforma in realtà. È il febbraio del 2015 e Salvatore, insieme ad altre persone con talassemia seguite al Policlinico di Milano dalla professoressa Maria Domenica Cappellini, partecipa a un incontro in cui viene presentato un protocollo sperimentale di una terapia innovativa messa a punto dal team di Giuliana Ferrari dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano che ha l’ambizione di correggere in modo definitivo il difetto genetico responsabile della sua patologia: la terapia genica.

La terapia prevede la correzione, tramite un vettore di origine virale derivato addirittura dall’HIV, delle cellule staminali del sangue, così da fornire una versione funzionante del gene che codifica per quella porzione dell’emoglobina, la beta globina, che nelle persone come Salvatore non viene prodotta. 

«La terapia genica è arrivata tardi rispetto alle aspettative, ma per me è arrivata in tempo – ricorda Salvatore. L’attesa dei 27 anni e mezzo in cui ho trasfuso è stata come un allenamento. Non è che ci abbia pensato tanto, ma quando mi sono trasferito a Milano per lavoro, ogni volta che andavo in Policlinico per i controlli, ho sempre ricordato alla dottoressa Cappellini che io sarei stato disponibile per la sperimentazione. Mi sono sempre tenuto aggiornato, ho partecipato alla giornata di informazione organizzata l’8 febbraio 2015 dall’associazione, Fondazione Telethon e i ricercatori per la presentazione del protocollo di terapia genica. Quando è arrivata la mail che mi invitata a candidarmi per la sperimentazione non ci potevo credere. Per la verità, non ho risposto subito, sono perfino andato in vacanza con mio fratello. Al ritorno, durante un volo di dieci ore, ho deciso di scrivere: appena arrivato a casa, ho trovato la risposta che mi invitava a presentarmi in ospedale per lo screening. Ecco, dopo 27 anni era lì, come un caffè pronto alla mattina quando ti svegli».  

Un secondo compleanno 

Il 15 gennaio 2016 Salvatore ha ricevuto le sue cellule staminali del sangue corrette con la terapia genica: è stato il secondo in assoluto nell’ambito della sperimentazione condotta dai ricercatori Telethon, i cui primi positivi risultati sarebbero poi stati pubblicati nel 2019.

«Quel giorno è come un secondo compleanno per me – racconta. I medici e gli infermieri sono stati fantastici: hanno un’umanità esagerata, fanno il loro lavoro con amore. Chiedevo tantissime spiegazioni e mi arricchivo ogni giorno. Accanto a me ci sono sempre stati i miei genitori e mio fratello Filippo: anche se ci sono tredici anni di differenza, il nostro legame è fortissimo, lui è la mia spalla».  

Grazie alla terapia genica Salvatore ha ridotto significativamente il ricorso alle trasfusioni di sangue, sia nella frequenza che nella quantità. Più in generale si sente più in forze, fa regolarmente sport e teatro, viaggia, lavora.

«Milano è stata per me la città della rinascita, per tanti motivi. E l’incontro con Telethon mi ha cambiato la vita, mi ha dato una nuova opportunità: sarò sempre grato non solo ai suoi ricercatori, ma anche a tutti i donatori che hanno sposato la causa delle malattie genetiche rare». 

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