Grazie alla tecnologia LED e all’ostinazione di un papà è più semplice contrastare la malattia genetica caratterizzata dall’impossibilità di metabolizzare la bilirubina.
La luce è un elemento vitale: basti pensare allo straordinario fenomeno della fotosintesi delle piante, e non solo. Ed è ancora la luce, in questo caso artificiale, che interviene terapeuticamente per la cura di alcune malattie genetiche, come la sindrome di Crigler-Najjar.
In passato, però, questo supporto mal si è conciliato con l’esuberanza tipica dei più giovani. Beatrice, oggi trentottenne mamma di due bambini, che vive a Castelvetro di Modena, per spiegarlo torna con la memoria alla sua adolescenza: «La fototerapia è sempre stata parte di me. Sono cresciuta dormendo con una lampada che mi illuminava ogni notte; e tuttora succede, inevitabilmente. Sono grata alla mia lampada, senza di lei non mi sarei potuta godere ogni singolo attimo della mia vita, ma quante rinunce mi è costata in gioventù!».
L’età è quella delle gite scolastiche, prove tecniche di autonomia, lontano dagli sguardi censori dei genitori. Beatrice è impaziente, come tutti i suoi compagni di scuola, di allontanarsi da casa e vivere quel clima cameratesco al sapore di trasgressione che avvince i ragazzi e le ragazze in gita, quando si mollano gli ormeggi casalinghi anche solo per qualche giorno, nonostante la presenza degli insegnanti, sacrificati sull’ara della insubordinazione di classe. Ma Beatrice deve fare i conti con la sindrome di Crigler-Najjar di tipo 1, una rara malattia che impedisce il metabolismo della bilirubina, per la carenza o funzionamento difettoso di un enzima chiamato UGT. La sua grande lampada le garantisce sì la sopravvivenza, ma le impedisce di allontanarsi da casa per periodi più lunghi di tre giorni.
«Il problema è sorto nel momento in cui, negli ultimi due anni di liceo, le gite si potevano prolungare fino ad una settimana, un periodo inconciliabile con la fototerapia e, soprattutto, con le dimensioni della lampada, che la rendevano intrasportabile». E questo nonostante il gesto di generosità dei compagni di scuola di Beatrice che, in IV liceo, firmano una petizione per ridurre i tempi della gita a tre giorni, così da permettere alla loro compagna di partecipare. In V liceo lo sforzo e lo spirito di squadra si manifestano in maniera più eclatante, con i genitori di Beatrice che si incaricano di spedire tutta l’attrezzatura e i compagni di classe più nerboruti che, in treno, si caricano sulle spalle le lampade.
Qualche anno dopo poi ci furono gli Stati Uniti. «Quello che sarebbe diventato mio marito, con mia grande sorpresa, un giorno si presentò con due biglietti aerei per gli USA. Il trasporto della lampada sarebbe stato impossibile, ma la soluzione fu presto trovata in quel caso - ricorda con una certa emozione Beatrice - quando lui stesso si mise d’accordo con un professore statunitense conosciuto in Italia in occasione di un convegno che ci assicurò la disponibilità di una lampada in loco». Ed è a questo punto della storia che interviene in maniera determinante Velio, il papà di Beatrice. «Dopo che a mia figlia, praticamente neonata, è stata diagnosticata la sindrome di Crigler-Najjar, acquistammo una lampada come quelle che in ospedale si usano per curare l’ittero, con i tubi a fluorescenza».
Da quel primo esemplare, però, il cammino verso la graduale riduzione di peso e dimensioni è progredito proporzionalmente al desiderio di Beatrice di volere, a tutti i costi, partecipare, in tutto e per tutto, alla vita di classe. «La necessità aguzza l’ingegno - rimarca Velio, che successivamente fonderà poi C.I.A.M.I. Onlus che raggruppa le famiglie di persone con sindrome di Crigler-Najjar - e da quella prima grande lampada ne sono scaturite altre 7, tutte realizzate da me, e sempre più a portata di viaggio, fino a raggiungere le misure adatte al trasporto a mano all’interno della cabina di un aereo».
La rivoluzione ha un nome: Led. «Quando mi spiegarono, dieci anni fa, quanto fossero potenti, durevoli, a basso consumo e di ridotto ingombro capì che si trattava della tecnologia che faceva al caso nostro». Dopo alcuni test effettuati in laboratorio a Firenze, Velio documenta che la lunghezza d’onda dei led (457 nanometri) è quella giusta per spezzare la catena della bilirubina affinché questa diventi idrosolubile e, quindi, possa essere espulsa con le urine, evitandone il rischio di accumulo che è causa di gravi problemi neurologici. I riscontri medici si dimostrarono subito molto soddisfacenti, anche migliori delle lampade a tubi. Una svolta nella storia della fototerapia.
«Dopo i primi venticinque anni di vita è stato fondamentale poter contare sull’avanzamento delle tecnologie che mi hanno consentito di viaggiare con la lampada in un trolley - racconta Beatrice - destando un po’ di curiosità, o anche perplessità, negli addetti ai controlli negli aeroporti, fugate dalle certificazioni che mi accompagnano in tutti gli spostamenti tuttora. Anche se è stato altrettanto gratificante, e non scorderò mai, provare l’affetto e le attenzioni dei miei genitori, e anche dei miei compagni di scuola, ai tempi delle grandi lampade a tubi».
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