La quotidianità dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica stravolta durante l’emergenza Covid-19.
L’Ospedale San Raffaele di Milano, sede dell’Istituto Telethon per la terapia genica, è ancora adesso uno dei presidi sanitari in prima linea nell’emergenza Covid-19, che ha costretto a una vera e propria riorganizzazione per poter accogliere il maggior numero possibile di pazienti gravi. Questo ha avuto un impatto non indifferente anche sull’unità di ricerca clinica dell’SR-Tiget, che offre a pazienti affetti da malattie genetiche rare terapie innovative, spesso ancora sperimentali, in grado di offrire una concreta speranza di cura.
Come ha spiegato Alessandro Aiuti, vicedirettore e responsabile della ricerca clinica dell’Istituto, «i nostri colleghi in prima linea hanno fatto sforzi giganteschi. Noi siamo rimasti nelle retrovie per proteggere i nostri piccoli pazienti, tra i più fragili perché resi immunodepressi dalla loro patologia o dalla chemioterapia necessaria per far posto alle loro cellule curate, quelle corrette con la terapia genica che possono restituire loro una vita normale».
L’attività clinica si è adattata all’emergenza: tutti i controlli periodici sono stati posticipati, così come gli interventi non urgenti. «Durante la prima ondata avevamo una decina di famiglie di cui occuparci» ricorda Maria Ester Bernardo, medico e ricercatore dell’SR-Tiget. «Il nostro mantra è stato mantenere l’ambiente e il personale sanitario “virus-free”, perché un eventuale contagio sarebbe stato ancora più deleterio per pazienti delicati come quelli che seguiamo. Abbiamo creato percorsi ad hoc per venire qui, sanno che devono prendere solo certi ascensori e frequentare soltanto certe stanze. Siamo stati perennemente “bardati” con mascherine, occhiali, guanti, con le mani distrutte dal disinfettante, perché non possiamo permetterci che si infettino».
In una situazione eccezionale come questa i ruoli possono cambiare e c’è anche chi come Mariapia Cicalese, che generalmente si occupa dei piccoli pazienti in attesa della terapia genica, è andata volontariamente a lavorare in uno dei reparti Covid. «Un’esperienza dura, che ti mette di fronte alla caducità umana. Anche noi abbiamo avuto paura, di essere contagiati in prima persona e di portare l’infezione a casa nostra, ma è stata più forte la voglia di essere lì».
Una casa sicura
«Sappiamo che questo momento è davvero difficile, ma voi avete superato tante situazioni complesse e siamo certe che riuscirete a superarlo. Così come vi abbiamo affiancato nei mesi in cui siete stati a Milano, oggi ancor di più vorremmo esservi vicine: noi siamo qui, disponibili ad ascoltarvi, per accogliere ogni vostra preoccupazione. Potete scriverci o chiamarci, per esservi di supporto anche se distanti». Con questo messaggio tradotto in più lingue Francesca Ciotti e Maddalena Fraschini hanno voluto trasmettere la propria vicinanza a tutte le famiglie giunte in questi anni a Milano da tutto il mondo.
Psicologhe, fanno parte dello staff di “Come a casa”, un programma di Fondazione Telethon che offre un supporto a 360° durante il lungo e complesso percorso di cura. «In questa fase di emergenza - spiega la coordinatrice Margherita Levi - sono state rimandate anche tutte le attività “ricreative” che normalmente offriamo, come i corsi di lingua o la musicoterapia. Molte famiglie hanno dovuto prolungare la loro permanenza in Italia perché in questo momento viaggiare è molto complicato, se non addirittura impossibile».
Vita da infermiere
All’SR-Tiget le famiglie che provengono da tutto il mondo sono seguite nel loro percorso da un team di infermieri di ricerca specializzati, come Federico Fraschetta, che descrive una realtà dura, scandita da un ritmo che non ha paura a definire “militare”. «La gestione clinica e logistica in questo tempo sospeso è stata difficile e ha richiesto pazienza ed equilibrio».
Per Mara Sangalli, uno degli “acquisti” più recenti dell’unità clinica, la priorità è stata gestire la paura. «L’ospedale non è più percepito come un posto sicuro, sta a noi infondere in queste persone tutta la serenità che possiamo, la stessa che cerchiamo di portare a casa nostra. A questi bambini ci lega un fortissimo senso di protezione, perché sono estremamente fragili: l’immunodeficienza non si vede, proprio come il virus, ma esiste eccome».
E c’è anche chi ha vissuto sulla propria pelle l’impatto del nuovo coronavirus, come Gigliola Antonioli, membro storico del team. «Non mi aspettavo di essere contagiata: è davvero una malattia devastante, ti manca il fiato e ti fanno male i polmoni, una sensazione mai provata. Ci eravamo preparati per gestire i nostri pazienti nell’emergenza, ma non avremmo mai immaginato un tornado di questo genere».
«Sono stati momenti surreali - racconta Silvia Darin - la paura che aleggiava nei corridoi dell’ospedale e incorniciava i volti degli operatori impegnati in prima linea raggiungeva anche le nostre famiglie, al cui carico emotivo si aggiungeva l’impossibilità di rientrare nel proprio Paese. Mi ritrovavo a dire “dobbiamo stare molto attenti ma andrà tutto bene” e a volte mi chiedevo se ci credevo veramente. Ma poi – conclude - bastava uno sguardo a questi piccoli e per capire che… sì, sarebbe andato tutto bene!».