L'Istituto Telethon che si trova all'interno dell'Ospedale San Raffaele di Milano si sta adattando all'emergenza dovuta al Covid 19 mettendo in atto tutte le precauzioni per i piccoli pazienti
L’emergenza coronavirus ha certamente rivoluzionato l’attività clinica dell’Ospedale San Raffaele, uno dei presidi lombardi più coinvolti nella gestione dell’emergenza, ma non ha fermato del tutto il lavoro dell’unità clinica dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget), che accoglie pazienti da tutto il mondo affetti da malattie genetiche rare pronti a ricevere i trattamenti innovativi messi a punto nei laboratori dell’istituto.
Trattamenti che si stanno dimostrando in grado di cambiare la vita a bambini affetti da gravi immunodeficienze quali l’Ada-Scid o la sindrome di Wiskott-Aldrich, la beta talassemia o malattie da accumulo lisosomiale come la leucodistrofia metacromatica o la mucopolisaccaridosi di tipo 1, ma che al contempo sono molto impegnativi per l’intera famiglia: richiedono infatti di trascorrere diversi mesi lontani da casa, nonché un periodo di vero e proprio isolamento in quanto in tutti i casi il protocollo clinico prevede una fase di chemioterapia necessaria per consentire all’organismo le preziose cellule staminali ematopoietiche corrette grazie alla terapia genica.
A seguire le famiglie in tutto il loro complesso percorso è un team di infermieri di ricerca specializzati. L’emergenza COVID ha costretto a rivedere i programmi: i controlli periodici e gli interventi meno urgenti sono stati rimandati, ma al momento sono una decina le famiglie di bambini trattati da poco o in attesa di trattamento che si trovano a Milano. «È un momento surreale – commenta Silvia Darin, infermiera di ricerca – che ci mette di fronte a nuove problematiche fino ad oggi mai immaginate. La paura che aleggia nei corridoi dell’ospedale e incornicia i volti degli operatori sanitari impegnati in prima linea raggiunge anche le nostre famiglie, che già hanno il loro carico emotivo: l’inizio di una chemioterapia non posticipabile, i primi giorni post terapia genica con tutti i rischi correlati, a cui ora si aggiunge l’impossibilità di rientrare nel proprio Paese, che magari sta affrontando il nostro stesso problema ma dal quale non si hanno notizie sicure. Cercano quindi il sostegno in noi, che dopo aver portato loro la speranza di una nuova vita, ora ci sentiamo ugualmente smarriti e fatichiamo a trasmettere quella sicurezza che prima sapevamo infondere e di cui hanno disperatamente bisogno. La cercano ovunque, in ogni sguardo, e noi con la sola forza della speranza cerchiamo di restituire quel minimo di certezza che abbiamo. Mi ritrovo a dire che ‘dobbiamo stare molto attenti ma andrà tutto bene’ e a volte mi chiedo se ci credo veramente. Ma poi basta uno sguardo a questi piccoli e capisco che… sì, andrà tutto bene!».
Anche per Mara Sangalli gestire innanzitutto la propria di paura è la priorità in questo momento: «in questa situazione l’ospedale non è più percepito come un posto sicuro, sta a noi infondere in queste persone tutta la serenità che possiamo, la stessa che cerchiamo di portare a casa nostra. Abbiamo fatto grandi sforzi per garantire loro percorsi protetti, velocizzare le procedure e minimizzare il più possibile il rischio di contagio. Sono “i nostri bambini”, a loro ci lega un fortissimo senso di protezione, perché sono estremamente fragili: l’immunodeficienza non si vede, esattamente come il virus, ma esiste eccome. Guanti e mascherine sono il nostro “pane quotidiano” e continuano a esserlo anche ora, a maggior ragione. Un’infezione vanificherebbe il trattamento che hanno fatto e che può offrire loro un futuro, sarebbe imperdonabile che accadesse. Quando penso ai nostri colleghi in prima linea nei reparti COVID mi piace pensare che noi siamo la seconda linea, al fianco dei più deboli. Abbiamo tutti un ruolo in questa battaglia e chi ha creduto tanto in Fondazione Telethon deve sapere che ce la stiamo mettendo tutta per andare avanti. A darmi la carica non sono gli applausi di chi ci governa, ma i grazie dei genitori che vanno a casa con il loro bimbo curato, la loro commozione nonostante la timidezza e la stanchezza».
Tra gli infermieri dell’unità clinica c’è anche chi ha vissuto sulla propria pelle l’impatto del coronavirus, come Gigliola Antonioli, bergamasca, da oltre tre settimane a casa con l’ossigeno. «Non mi aspettavo di essere contagiata, ci sono rimasta malissimo – racconta con il fiato corto. È davvero una malattia devastante, ti manca il fiato e ti fanno male i polmoni, una sensazione mai provata. Ci eravamo preparati per gestire i nostri pazienti nell’emergenza, ma non avremmo mai immaginato un tornado di questo genere. Devo dire però che ho sempre sentito la vicinanza di tutti i miei colleghi, sia quando mi hanno ricoverata, sia una volta tornata a casa per curarmi: ho provato davvero cosa vuol dire essere una squadra, mi aggiornano e mi coinvolgono. Anche le famiglie dei bambini che abbiamo curato mi scrivono, per chiedere consigli ma anche per mandare messaggi di sostegno. Quando la situazione sarà rientrata saremo pronti per ripartire al meglio».
E a quando si potrà ripartire pensa anche Federico Fraschetta, uno degli “acquisti” più recenti dell’unità clinica dell’SR-Tiget. La realtà attuale è molto dura: dorme solo ormai da settimane e ogni mattina, quando si alza alle 6 per recarsi in ospedale, si prepara con un ritmo che non ha paura a definire “militare”, una sequenza metodica e asettica di azioni perfettamente collaudata che però non gli impedisce ancora di fermarsi ad ammirare il fascino della Milano silenziosa di questi giorni, in cui anche l’aria ha cambiato odore per la drastica riduzione del traffico. «La gestione clinica e logistica in questo ‘tempo sospeso’ è ancora più difficile e richiede molta pazienza ed equilibrio. Per i nostri bimbi il tempo non può essere fermato, ma l’asticella si è decisamente alzata: pur in questa situazione imprevista, che muta con il passare delle ore e sta rivoluzionando le nostre vite, la priorità resta portare i nostri pazienti alla terapia genica. Essere riusciti a farlo anche in questa situazione per un bambino affetto da leucodistrofia metacromatica, una malattia che ti lascia solo una piccola finestra di tempo per intervenire, è stato un vero miracolo».
A dare forza a Federico sono anche messaggi come quello di Jai, padre di un bambino affetto da sindrome di Wiskott-Aldrich che ha ricevuto la terapia genica un anno fa: “Hello Federico, how are you doing? How is your family and all the team ? We are worried for you all there, for the families who are there for treatment… it is really a real challenge in itself. I pray for you, my friend. I know that you’ll face in the best way this situation”. «Quando l’ho ricevuto mi ero appena messo in macchina e ho subito pensato a una mia amica di Houston che quando riceveva una bella notizia diceva sempre ‘it makes my day’. Ecco, un messaggio così è un dono, dice tutto, non c’è bisogno di altre parole. Sceso dalla macchina ho incontrato una collega, anche lei aveva ricevuto una mail dalla mamma di un bimbo. Ci siamo sorrisi, ‘ it makes our day’. Nel nostro cuore abbiamo un segreto prezioso che non è solo nostalgia, ma la forza dell’amore che tante famiglie ci donano e che ci sosterrà oggi e nei giorni che verranno».