Anche in piena emergenza Coronavirus la squadra dei clinici dell'Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano continua a lavorare per quei pazienti per cui il tempo è prezioso, come le persone con leucodistrofia metacromatica
Con oltre 600 pazienti Covid assistiti ad oggi, metà dei quali attualmente ricoverati, l’Ospedale San Raffaele di Milano è senza dubbio uno dei presidi sanitari in prima linea in questa emergenza.
Un’emergenza che ha costretto a una vera e propria riorganizzazione di tutti i servizi e reparti, per poter accogliere il maggior numero possibile di pazienti con sintomi gravi, e che ha avuto un impatto non indifferente anche sull’unità di ricerca clinica dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget), che offre a pazienti affetti da malattie genetiche rare terapie innovative, spesso ancora sperimentali, in grado di offrire loro una concreta speranza di cura.
Come spiega Alessandro Aiuti, vicedirettore e responsabile della ricerca clinica dell’istituto, «i nostri colleghi in prima linea sono davvero encomiabili, stanno facendo sforzi giganteschi in situazioni molto difficili».
« Anche questo è prendersi cura e stiamo facendo di tutto per continuare a garantire terapie salvavita che non possono aspettare, perché per malattie come la leucodistrofia metacromatica è necessario intervenire prima che si manifesti. Non possiamo permetterci di rimandare, nonostante tutto».
L’attività dell’unità di ricerca clinica si è velocemente adattata all’emergenza: tutti i controlli periodici sono stati posticipati, così come gli interventi non urgenti, per ridurre i rischi per i pazienti e lasciare l’Ospedale con più spazio per attività per i malati Covid. «Abbiamo però una decina di famiglie di cui occuparci, di bambini trattati da poco che stanno recuperando o che aspettano il trattamento nei prossimi giorni» spiega Maria Ester Bernardo, medico e ricercatore dell’SR-Tiget che in occasione della recente Giornata delle malattie rare ha portato la sua testimonianza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante l’incontro celebrativo del trentennale della Fondazione Telethon.
«Il nostro mantra è mantenere l’ambiente e il personale sanitario “virus-free”, perché un eventuale contagio - continua la Bernardo - sarebbe ancora più deleterio per pazienti delicati come quelli che seguiamo. Abbiamo creato dei percorsi ad hoc che devono seguire per venire qui, sanno che devono prendere solo certi ascensori e frequentare soltanto certe stanze. Noi siamo gli unici deputati a toccarli nel vero senso della parola: da settimane siamo perennemente “bardati” con mascherine, occhiali, guanti e abbiamo le mani letteralmente distrutte dal disinfettante, perché non possiamo permetterci che si infettino: sarebbe una tragedia nella tragedia. Il nostro pensiero principale è proprio che loro non prendano l’infezione, prima che noi stessi, le prospettive sono ribaltate rispetto ai colleghi che assistono i pazienti Covid, che invece devono proteggere soprattutto sé stessi per poter continuare a offrire il proprio supporto. Ci muoviamo in una città spettrale, senza traffico, in una realtà che sembra sospesa: fino a quando non sarà finita dobbiamo resistere e proteggere i nostri pazienti, quelli che sono venuti fin qui anche dall’altra parte del mondo. Questa è la nostra parte, e ognuno deve fare la sua».
Ma in una situazione eccezionale come questa i ruoli possono cambiare e c’è anche chi come Mariapia Cicalese, medico e ricercatore dell’SR-Tiget, si è offerta volontariamente per andare a lavorare in uno dei reparti Covid - ben otto attualmente - che richiedono personale dedicato. «La situazione è difficile, è sicuramente la polmonite di comunità più grave dell’ultimo secolo, non avevo mai visto niente di simile. Siamo tutti molto stanchi, perché c’è una richiesta di ricoveri per trattamenti intensivi enorme, per quei pazienti che arrivano qui in insufficienza respiratoria. È un’esperienza molto dura, che ti mette di fronte alla caducità umana, ma anche alla difficoltà nel reperire risorse e nel fornire un’assistenza di tipo intensivo in reparti che normalmente fanno altro».
«Sento che dopo questa esperienza, quando tutto sarà finito, sapremo molto di più e quello che avremo imparato ci aiuterà a gestire non solo questa, ma anche altre infezioni. In un certo senso un’esperienza come questa ti riporta all’essenza della medicina, a fare il medico in modo “nudo e crudo”, insieme ad altri che condividono il tuo stesso spirito. Sono sicura che me la porterò dentro per sempre e che mi renderà un medico e una persona migliore».