«Il mestiere del ricercatore racchiude in sé un doppio piacere: la scoperta e la possibilità di fare qualcosa di concreto per la salute delle persone, mettendo letteralmente “le mani in pasta”». A soli 30 anni, Daphne Cabianca ha già raggiunto un obiettivo invidiabile per chi ha scelto di dedicare il proprio futuro alla ricerca scientifica: all’inizio di maggio ha pubblicato i risultati del suo lavoro su Cell, una delle riviste internazionali più prestigiose, una di quelle che tra gli addetti ai lavori fa esclamare “Ah, però!”.
Il suo nome è il primo nella lista degli autori, cinque sono gli anni di lavoro che ci sono voluti per arrivarci. «È stata una bellissima soddisfazione, vista la fatica che ci è voluta e lo stress degli ultimi mesi, quando si trattava di eseguire gli ultimi esperimenti che la rivista ci ha richiesto per confermare definitivamente i nostri risultati. Per festeggiare mi sono regalata una cena in un ristorante targato Michelin con il mio fidanzato, che negli ultimi tempi ha dovuto sopportarmi… naturalmente ho offerto io!».
La sfida scientifica di Daphne è chiarire i meccanismi molecolari di una malattia genetica ancora molto misteriosa da questo punto di vista, la distrofia facio-scapolo-omerale, all’interno del gruppo guidato da Davide Gabellini dell’Istituto Telethon Dulbecco. «Ho conosciuto Davide nel 2006, grazie a una borsa di studio che mi ha permesso di trascorrere cinque settimane a Boston, negli Usa: lì mi sono decisamente appassionata a questo filone di ricerca. Così quando lui è rientrato in Italia e grazie al programma carriere di Telethon ha costituito il proprio gruppo all’Istituto San Raffaele ho fatto di tutto per svolgere lì il mio dottorato di ricerca».
Fin dall’inizio Daphne si è buttata a capofitto nello studio del meccanismo patogenetico alla base di questa particolare forma di distrofia, un vero rompicapo per gli scienziati. Dopo anni di esperimenti è arrivata la dimostrazione di un meccanismo complesso e del tutto nuovo, una sorta di “telecomando a distanza” dell’attività dei geni che aiuta a spiegare le particolarità di questa forma di distrofia e che potrebbe essere riscontrato anche in altre malattie complesse.
«La conoscenza scientifica ha ormai messo l’acceleratore: basti pensare che regioni come quella che studiamo noi, che non contengono geni ma soltanto una ripetizione di sequenze tutte uguali fra loro, fino a pochi anni fa erano letteralmente considerate “spazzatura”. Questo risultato suggerisce invece come anche queste porzioni di Dna possano avere un ruolo importante,al punto da essere anche critiche per il funzionamento dell’organismo» spiega Daphne.
«Andare a fondo di quello che succede a livello molecolare è elettrizzante per chi ha scelto di fare il ricercatore. Però talvolta abbiamo bisogno di essere riportati alla realtà e di ricordarci perché lo facciamo: certamente per un desiderio di conoscenza, ma anche e soprattutto perché fuori dal laboratorio ci sono i pazienti che aspettano delle risposte. Recentemente mi è capitato di rispondere al telefono e di ritrovarmi a parlare con una persona affetta dalla malattia che studiamo che voleva sapere se e quando ci saranno delle prospettive concrete di cura. Rispondere è molto difficile, subentra per un attimo una sensazione mista tra il senso di colpa e la frustrazione, ma poi si trovano le parole e soprattutto una consapevolezza nuova del perché stiamo facendo tutto questo. Poi? Torno al bancone ovviamente».