«Ho lavorato 9 anni con il premio Nobel Bob Lefkowitz, è stata un'esperienza cruciale che mi ha insegnato tantissimo». Una voce amichevole, una risata simpatica, oltre vent'anni di carriera da ricercatrice di altissimo livello in tutto il mondo, Susanna Cotecchia, professore ordinario di Farmacologia all'Università di Bari, racconta così, con franchezza e semplicità, la sua passione per il mondo della ricerca.
«Sono sempre stata appassionata alla farmacologia, specialmente quella molecolare - spiega -. Ho dedicato tutta la mia carriera allo studio dei recettori di membrana accoppiati alle proteine G. Sono ricerche molto specialistiche, che però sono utili a capire in generale il funzionamento dei farmaci».
Al momento, grazie al finanziamento della Fondazione Telethon, Susanna e il suo gruppo stanno studiando in particolare le mutazioni dei recettori dell'ormone vasopressina, mutazioni che sono alla base di una malattia genetica rara, la sindrome da inappropriata antidiuresi.
Il malfunzionamento di questi recettori porta infatti all'incapacità da parte dei reni di eliminare l'acqua, con un conseguente abbassamento dei livelli ematici di sodio. Questo disturbo raro ha manifestazioni molto variabili da un individuo a un altro, ma è particolarmente grave nei neonati.
«Comprendere il meccanismo di attivazione di tali recettori potrebbe essere quindi importante anche per diagnosticare nuovi casi prima che i sintomi si manifestino». C’è ancora molto da scoprire, insomma, in questo campo ancora giovane. «Purtroppo - continua Susanna - trovare finanziamenti è terribilmente difficile. Ho lavorato per 27 anni all’estero e quando, circa sette anni fa, sono tornata in Italia per motivi familiari reperire fondi è stato il problema principale. Sono enormemente riconoscente alla Telethon, perché senza il grant della Fondazione non avrei mai potuto intraprendere questo tipo di studi. Il sistema italiano di finanziamenti non premia sempre la meritocrazia e la ricerca di base, pur fondamentali».
Secondo la farmacologa, dunque, per permettere ai giovani ricercatori di rimanere in Italia sarebbe necessaria «una politica di sviluppo coerente e forte, che al momento non c’è, con fondi accessibili in base al merito, un sistema di valutazione capillare e una diversa struttura del sistema universitario».
Perché allora dedicarsi alla ricerca? «Per passione, innanzitutto. La ricerca richiede dedizione, impegno, capacità di affrontare l’incertezza, curiosità, ma soprattutto una grande passione. Questa vince su tutte le difficoltà».
Nel suo caso, la scelta è stata dettata soprattutto da una grande curiosità, dalla voglia di approfondire i meccanismi e le conoscenze di base. «Ho seguito il mio istinto – spiega -. La ricerca è cruciale per l'avanzamento del Paese e quella sulle malattie rare lo è in modo particolare. Adesso il mio sogno è quello di poter dare con il mio lavoro un contributo concreto alla comprensione di questa malattia, ma vorrei anche che la nostra nazione tartassata offrisse un destino migliore ai suoi giovani ricercatori».
Intervista realizzata da Micaela Ranieri, studente del Master in Comunicazione della Scienza presso la SISSA (Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati).