Maria Pia Cicalese: da Napoli a Milano per amore della ricerca

A tu per tu con Maria Pia Cicalese, 36 anni, napoletana, pediatra, referente di qualità e trapianto autologo, nell'Unità Operativa di Immunoematologia Pediatrica, presso l'SR-Tiget (Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano), coordinata da Alessandro Aiuti.

Cicalese

Come spiegheresti il tuo lavoro a un bambino?

«Sono una dottoressa, una pediatra, che prova - insieme ad altri medici - a curare alcune malattie genetiche molto rare. Come? Correggendo le cellule del sangue in modo che bambini nati malati possano guarire e stare meglio, così da avvicinarsi quanto più possibile a vivere una vita normale come quella della maggior parte dei loro coetanei».

Qual è l’aspetto della tua professione che ti piace di più?

«Poter fare medicina sperimentale. Creare, in alcuni casi, trattamenti innovativi, considerare opzioni di cura mai provate prima. Dover essere trasversali: dalla ricerca alla clinica e viceversa. Tendere al perfezionamento delle cure per consentire anche a chi ha una prognosi molto severa di sperare in un'esistenza lunga e serena». Quanto è importante, nella ricerca, la curiosità? «Moltissimo. Porta dedizione, fantasia, voglia di capire le radici del problema e di trovare una soluzione. Spesso diventa un pensiero fisso su un nodo finché non si è in grado di scioglierlo».

Il tuo lavoro è fatto di momenti di grande soddisfazione ma anche di momenti di delusione. Raccontacene uno.

«Grande soddisfazione ogni volta che individuo la diagnosi, spesso difficile, in un bambino molto compromesso. A volte girano anni per ospedali, senza ricevere quella giusta. Di grande frustrazione, quando mi chiedono a che punto è la ricerca per una determinata malattia e io sono obbligata a rispondere che ha bisogno di tempi ancora lunghi, che non è immediatamente disponibile per tutti e che per molti non lo sarà in tempo utile».

Nell’ambito del tuo lavoro qual è a tuo parere la scoperta più grande, e quale la supererà?

«La caratterizzazione e il sequenziamento del genoma: ha aperto la strada alla conoscenza della causa di molte malattie. Il prossimo vero avanzamento sarà l’estensione della possibilità di diagnosi precoce a un numero sempre maggiore di patologie e pazienti».

Il tuo sogno professionale?

«Cambiare la storia delle immunodeficienze. Dare un contributo sostanziale alla ricerca perché si possa parlare sempre meno di patologie incurabili. Poter estendere lo stesso modello di trattamento a un numero sempre maggiore di malattie».

Lavori in uno degli istituti della Fondazione Telethon. Che cos'è per te Telethon?

«Una Fondazione a cui dire infiniti grazie, per aver dato visibilità alle malattie genetiche, permettendo di conoscerle, e, in alcuni casi, per aver consentito di arrivare a curarle. Una Fondazione che non si è mai fermata. Da qualche mese, per fare un esempio è attivo il progetto "Come a casa" nato per colmare un'esigenza fortissima, il bisogno di supporto umano alle famiglie che intraprendono il percorso di terapia genica. Spesso ci troviamo di fronte a famiglie straniere e ognuna di loro porta nel nostro Istituto un bagaglio di esperienze diverso. Il percorso di terapia genica dura diversi mesi ed offrire al paziente e ai suoi genitori dei riferimenti "familiari" è di fondamentale impatto sul modo in cui vivranno il percorso del trapianto, di per sé molto impegnativo e che peraltro spesso viene appena dopo la comunicazione di una malattia gravissima. Con questo progetto ci proponiamo la presa in carico della famiglia a 360 gradi con tutti i mezzi che Telethon ha messo a disposizione, dai mediatori culturali ad un team di psicologi, dalle infermiere di ricerca al Care Coordinator, che infine cerca di mettere insieme tutte queste figure e di assegnarle alle esigenze delle famiglie».

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