In occasione della Giornata internazionale delle donne in ingegneria, la ricercatrice dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina ci racconta le sue ricerche nell’ambito della cibergenetica.
Sempre di più la ricerca scientifica è multidisciplinare. Vale anche per la ricerca sulle malattie genetiche rare - la missione di Fondazione Telethon - che si avvale dei contributi di vari rami della biologia, ma anche di fisica, chimica, statistica e ingegneria. All’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli, per esempio, il gruppo di ricerca in biologia sintetica e dei sistemi è guidato proprio da un ingegnere, il professor Diego Di Bernardo, e accoglie altri ingegneri tra i quali la giovane Sara Napolitano, che sta per finire il suo dottorato di ricerca.
In occasione della Giornata mondiale delle donne in ingegneria, che cade domani 23 giugno, abbiamo intervistato Napolitano sul suo progetto di ricerca in un ambito dal nome quasi fantascientifico - la cibergenetica - e sul suo sguardo su un mondo tradizionalmente molto maschile. La Giornata delle donne in ingegneria, istituita nel 2014 nel Regno Unito e diventata internazionale nel 2017, ha infatti l’obiettivo di promuovere la partecipazione delle ragazze e delle donne a questo percorso di studio e di lavoro e di celebrarne i risultati.
Sara Napolitano, partiamo dal luogo di lavoro, il Tigem: quando ci è arrivata e per fare cosa?
«Lavoro nel laboratorio di Diego Di Bernardo da circa quattro anni. Ci sono arrivata per svolgere la tesi di laurea magistrale: all’università - corso di laurea in ingegneria biomedica alla Federico II di Napoli - avevo sentito il prof. parlare di biologia sintetica e sono rimasta subito affascinata. È una disciplina a metà strada tra biologia molecolare e ingegneria, che considerando le cellule simili a circuiti elettronici cerca di modificarne il comportamento applicando gli strumenti teorici dell’elettronica. Dopo la tesi mi sono fermata in laboratorio per il dottorato di ricerca, con un progetto in un ambito della biologia sintetica che prende il nome di cibergenetica e prevede la modulazione del comportamento di singole cellule o popolazioni di cellule attraverso l’ingegneria dei controlli».
Per chi non è ingegnere… di cosa si tratta esattamente?
«È l’ingegneria che si occupa di sistemi di controllo per vari tipi di dispositivi e impianti: dallo scaldabagno di casa, che deve controllare la temperatura dell’acqua, ai bracci robotici per l’industria o la chirurgia. Con il gruppo nel quale lavoro, abbiamo applicato questi sistemi all’obiettivo di sincronizzare il ciclo cellulare di popolazioni di cellule come lieviti, che sono organismi unicellulari, o cellule di mammifero. Il risultato di questo lavoro è stato pubblicato poche settimane fa sulla rivista Nature Communications».
Facciamo un passo indietro: che cos’è il ciclo cellulare e perché può essere utile sincronizzare come orologi i cicli di diverse cellule?
«In breve, il ciclo cellulare è il processo attraverso il quale si replicano le cellule che sono dotate di un compartimento specifico per contenere il materiale genetico (nucleo): le cellule animali, quelle vegetali, quelle di vari organismi unicellulari come i lieviti, ma non i batteri (che il nucleo non ce l’hanno). Si compone di quattro fasi: una prima fase di crescita, la duplicazione del dna, una seconda fase di crescita e la divisione della cellula madre in due cellule figlie. Se si prende una popolazione di cellule - per esempio una coltura di lieviti - ogni cellula sarà in una sua fase del ciclo, differente da quella nella quale si trovano altre cellule della stessa popolazione. Sincronizzarle significa fare in modo che si trovino tutte nella stessa fase. Da un lato, questo può aiutare a studiare meglio il ciclo stesso, raccogliendo informazioni molto importanti per esempio nella ricerca sul cancro. Dall’altro lato, però, la sincronizzazione è utile per incrementare la produzione da parte delle cellule di molecole che possono essere utilizzate come farmaci o in generale a scopo terapeutico, compresi i vettori virali necessari per la terapia genica. Una ricaduta molto rilevante per le malattie genetiche rare».
Ha detto che siete effettivamente riusciti a sincronizzare il ciclo cellulare di lieviti. Ma come?
«Regolando con un sistema informatico automatizzato i livelli di alcune sostanze nutritive nel mezzo di coltura delle cellule. Siamo partiti da lieviti che crescono a velocità differenti a seconda della concentrazione di un nutriente e li abbiamo marcati con sostanze fluorescenti. Questo permette al microscopio di riconoscere in che fase del ciclo si trovano le cellule, “leggendo” l’intensità delle marcature. Abbiamo poi sviluppato un sistema di controllo (in pratica un algoritmo informatico) che in base alle informazioni inviate dal microscopio decideva se, per quanto tempo e a quali concentrazioni somministrare il nutriente alla coltura, in modo da portare tutte le cellule presenti alla stessa fase del ciclo».
Veniamo a qualcosa di più personale… perché ha scelto di studiare ingegneria e in particolare ingegneria biomedica?
«Sono sempre stata appassionata di materie scientifiche e tecniche: ero la classica bambina che smontava le penne per vedere come funzionava il meccanismo, ma all’inizio durante gli anni del liceo scientifico ho pensato che mi sarei iscritta a medicina e avrei fatto la pediatra. Al momento decisivo, però, ho abbondonato questa idea per timore del carico emotivo che avrebbe potuto comportare questa professione (anche se negli anni successivi mi sono dedicata al volontariato praticando clown terapia in un reparto di oncologia pediatrica) e mi sono subito indirizzata all’ingegneria. Nel cercare di capire quale ingegneria ho rimesso insieme la parte di me che voleva capire come funziona il mondo e quella che voleva aiutare le persone e ho scelto ingegneria biomedica. Essere arrivata al Tigem è stato in fondo un modo per chiudere il cerchio su tutte queste passioni: qui è normalissimo vedere colleghi ricercatori di tutte le discipline che non sono affatto “ripiegati” sulle loro provette (come a volte ci immaginiamo gli scienziati), ma al contrario sono molto concentrati sui possibili risvolti concreti del loro lavoro per i pazienti».
Cosa trova di entusiasmante nel lavoro di ricercatrice in ingegneria?
«Per cominciare c’è un aspetto che credo riguardi un po’ tutti i ricercatori, cioè la soddisfazione un po’ egoista di arrivare a sapere alcune cose prima degli altri. Nel caso del mio ambito di ricerca, trovo letteralmente pazzesco che riusciamo a controllare in modo molto fine meccanismi cellulari dei quali in realtà non conosciamo ancora tutti i dettagli».
Com’è la presenza femminile nell’ambito della cibergenetica?
«Ridotta al minimo: mi vengono in mente pochissimi gruppi di ricerca guidati da donne. Del resto questo accade in tutti i rami dell’ingegneria, tanto che da alcuni anni nei congressi internazionali si tende a organizzare dei woman lunch (“pranzi tra donne”) per aiutare le donne a fare gruppo. Per fortuna, le donne che partecipano sono sempre più numerose».
Ha mai percepito difficoltà professionali per il fatto di essere donna?
«Per ora no, magari perché sono all’inizio della mia carriera. A quei pranzi tra donne ingegnere dei quali parlavo ho sentito molte storie di donne che hanno fatto veramente fatica ad affermarsi: io spero di non dovermi mai scontrare con questo tipo di difficoltà, perché vorrà dire che avremo risolto il problema».
Secondo lei come è possibile risolvere il problema della disuguaglianza di genere nell’accesso alle facoltà scientifiche e, una volta acquisita la laurea, nel raggiungimento di posizioni elevate di carriera?
«Come per qualsiasi battaglia di genere, credo che lo sforzo principale debba concentrarsi nel rompere gli stereotipi. Famiglia, scuola e società devono invitare bambine e ragazze a esprimere capacità e interessi anche in ambiti tradizionalmente pensati al maschile. E questo a partire dalla primissima infanzia: non devono esistere giochi solo per femmine o solo per maschi. E naturalmente noi donne ingegnere possiamo dare il nostro esempio e mostrare che le donne possono fare con eccellenti risultati tutto quello che desiderano (l’ingegnere, il meccanico, l’astronauta) e non ricoprire solo ruoli di accudimento come vorrebbe qualcuno. Lentamente, le cose si stanno muovendo, come ci ricorda anche la nomina di Samantha Cristoforetti a comandante della Stazione spaziale internazionale (è la prima donna europea a diventarlo): la società cambia, evolve, si aggiorna, anche se c’è ancora molta strada da fare».
Quindi avere dei modelli di riferimento aiuta… Quali sono stati i suoi?
«Il mio primo punto di riferimento è stata Rita Levi Montalcini, una grande donna che ha appunto dimostrato che non bisogna essere uomo per arrivare a traguardi eccellenti. Oggi i miei modelli in ambito scientifico sono le poche donne che guidano gruppi che si occupano di cibergenetica e biologia sintetica. In ambito personale seguo invece il lavoro di alcune associazioni femministe che mi aiutano ad aprire gli occhi su situazioni delle quali non mi ero resa conto, anche rispetto a temi come razzismo e omotransfobia».
Che cosa direbbe a una ragazza che stia considerando l’idea di studiare ingegneria?
«Di non lasciarsi spaventare dalla difficoltà che potrebbe percepire (se c’è interesse e voglia di impegnarsi ingegneria è molto più semplice di quanto si creda) né di lasciarsi frenare da quello che pensano gli altri o da un’immagine stereotipata della vita familiare. Non è affatto detto che una donna debba lavorare poche ore e poi stare a casa con i bambini: ognuno, anche i papà, deve dare il proprio contributo a quella piccola società che è la famiglia».