«Abbiamo ottenuto dei risultati molto importanti grazie a una tecnica che potrebbe rappresentare il futuro della terapia genica». Ricercatore dell’Istituto San Raffaele-Telethon, premiato come giovane ricercatore emergente a fine 2016 dalla Società Europea di Terapia Genica e Cellulare (ESGCT), Pietro Genovese, messinese, classe 1984, così commenta la ricerca appena pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine di cui è autore assieme a Luigi Naldini.
Grazie all’editing genetico, lo studio apre una reale prospettiva alla sperimentazione clinica per la cura di una malattia genetica ereditaria chiamata SCID-X1, rara patologia che porta a un funzionamento difettoso del sistema immunitario delle persone colpite, rese per questo molto vulnerabili alle infezioni. Questa patologia è causata da un difetto in un gene essenziale per lo sviluppo di particolari cellule del sistema immunitario che quotidianamente ci difendono da moltissimi microorganismi patogeni. I pazienti SCID-X1 sono quindi più vulnerabili a infezioni molto gravi.
La recente ricerca condotta da Luigi Naldini - direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) - e Pietro Genovese ha dimostrato che con questa tecnologia si possono correggere i difetti del gene “sbagliato” nelle cellule staminali del sangue che generano quelle particolari cellule del sistema immunitario. Così facendo, nei modelli di laboratorio, si è ottenuta la ricostituzione di un sistema immunitario perfettamente funzionante in una patologia per cui la terapia genica tradizionale ha dato in passato dei problemi di sicurezza. «I risultati ottenuti pongono solidissime basi per la sperimentazione clinica per la cura di questa malattia. Ma non solo. Quanto scoperto potrà essere utilizzato anche per sviluppare una terapia per altri tipi di immunodeficienze congenite, così come in futuro per malattie ereditarie più comuni, come le talassemie e l’anemia falciforme».
Un risultato, questo, che parte da lontano…
«È un percorso cominciato più di 10 anni fa che oggi offre delle prospettive concrete. Abbiamo capito quali sono i passaggi chiave per arrivare ai primi test sui pazienti affetti da SCID-X1 tra pochissimi anni».
In cosa consiste lo studio?
«Abbiamo applicato l’editing genetico sulle cellule staminali da cui si formano tutte le cellule del sangue, tra cui i linfociti che, nei pazienti SCID-X1, non funzionano bene correggendo l’errore nel gene. Poi ci siamo resi conto che le cellule corrette in laboratorio e reimmesse nella loro sede naturale, che è il midollo osseo, hanno un vantaggio sulle cellule malate: si moltiplicano molto più velocemente riuscendo a ripopolare completamente il sistema immunitario. Queste e molte altre informazioni sono fondamentali per pianificare la sperimentazione clinica».
Quali prospettive?
«I risultati ottenuti sono importanti non solo per la patologia SCID-X1 ma anche perché le conoscenze acquisite ci consentiranno di agire su altre due immunodeficienze ereditarie, la sindrome da Iper-IgM e quella da deficit di RAG-1 (o sindrome di Omenn). Anche per queste patologie ora si potrà lavorare per arrivare all’applicazione sui pazienti».
Per voi ricercatori, è una bella soddisfazione…
«Come scienziato ciò che voglio fare è cercare di risolvere problemi complessi la cui soluzione possa avere un impatto nel reale. È una grande responsabilità ma è la spinta che ci fa lavorare sodo per approdare ai risultati. Ora però dobbiamo arrivare pronti alla prossima fase, per garantire a questi pazienti una possibilità di cura efficace. Ogni traguardo raggiunto, per noi, è una nuova partenza».
Lei a soli 33 anni è responsabile di progetto, ha pubblicato sulle più importanti riviste scientifiche al mondo e ricevuto molti premi per il suo lavoro. Come si fa a raggiungere questi traguardi?
«Serve curiosità verso l’ignoto e una grandissima passione, quella che ti dà la forza di affrontare le difficoltà, che ci sono, e la voglia di lavorare tanto, anzi tantissimo, week-end compresi. Questa passione per me è scoppiata molto presto».
Quando?
«La scienza mi è sempre piaciuta. Mi interessavano le scoperte scientifiche che potessero avere un impatto sulla salute. Così da Messina mi sono trasferito a Modena per frequentare Biotecnologie Mediche. È lì che ho scoperto la terapia genica che allora era un campo all’assoluta avanguardia. Mi innamorai di questa tecnica e delle sue potenzialità. In seguito mi sono trasferito a Milano per studiare e continuare a lavorare proprio in questo ambito all’SR-Tiget diretto da Luigi Naldini. Lì ho iniziato a esplorare in diversi settori di ricerca la tecnologia dell’editing del genoma che, a quei tempi, rappresentava una frontiera ancora più innovativa. Era una sfida vera, e io l’ho colta».
Il suo percorso si è svolto tutto in Italia, all’SR-Tiget. Si parla sempre di fuga dei cervelli, lei però è rimasto…
«Al termine del mio dottorato all’SR-Tiget, mi sono reso conto che le mie ricerche stavano portando a dei risultati molto importanti e ho deciso di rimanere. Lavoro in un istituto di assoluta eccellenza. Alla qualità di questa struttura, in cui ho avuto modo di formarmi, di crescere, di fare ricerca, e al supporto di Telethon devo moltissimo. Si può fare ottima ricerca anche in Italia: questo centro, e i risultati che sta ottenendo, ne sono la piena dimostrazione».
Lavora moltissimo, l’ha detto. E il tempo libero?
«È poco. Mi piace il mare, sono le mie radici siciliane. Sono un appassionato di immersioni subacquee. Ogni tuffo è un viaggio in un territorio sconosciuto, da scoprire. A pensarci bene, è una bella metafora di ciò che faccio ogni giorno, come ricercatore».
Intervista tratta dal Telethon Notizie 4-2017. Di Donato Ramani