«Ricordo mi colpì la storia di questa “bambina bolla”: era protetta da qualunque cosa perché qualunque cosa, per via della sua malattia rara, l’Ada-Scid, che le annullava le difese immunitarie, avrebbe potuto “ferirla”. Quattro anni dopo, quella bambina era seduta accanto a noi, sui nostri divani, in televisione. Grazie alla terapia genica poteva non temere più così tanto virus, batteri. Ecco, questo per me è Telethon».
Arianna Ciampoli di mestiere fa la conduttrice tv (dal 10 febbraio ogni sabato e domenica dalle 13.30 in onda su Tv2000 con “Ci vediamo da Arianna”), e presta spesso e volentieri il suo volto come garante del buon operato di Fondazione Telethon: è protagonista degli spot per le donazioni regolari, e volto delle maratone televisive che raccolgono preziosi fondi per la ricerca. «Pensare che di Telethon conoscevo quello che conoscono tutti: poi l’amore è nato per vicinanza d’anime. Come chi lavora per la Fondazione penso non si possa vivere senza fare nulla in un mondo dove qualcuno rischia di non potere esistere. Telethon per me è conforto».
Come è iniziata la storia con la Fondazione?
«Nelle piazze, prima ancora che nella maratona televisiva. Facevo i collegamenti durante i banchetti. Da lì ogni anno di più Telethon è diventato un pezzo del mio essere: mi compone, fa la mia storia».
Che cosa le fa credere che sarà sempre così?
«Il suo occuparsi dei pochi. Anzi, dei pochissimi. Che rischiano di non esistere mentre io esisto. E ognuno di noi in fondo questo chiede: di “esistere”. E dentro la malattia il tempo è buio, fatto di solitudine e isolamento, e ti sono ignote un sacco di cose: quello che potrà accadere, se qualcosa evolverà, involverà, se crescerai, che cosa ne sarà di te».
Una malattia senza nome fa ancora più spavento.
«Non puoi neanche maledirla. Nessuno può sentirsi escluso, da un discorso così. Neanche gli scettici. I tanti che pensano sempre al lato truffa delle donazioni: “Ma dove finiscono i nostri soldi?, E se è una fregatura?».
Però con Telethon anche i più diffidenti scelgono di fidarsi.
«E non solo per il meccanismo d’immedesimazione del “potrebbe succedere anche a me”. Ma perché in fondo le persone credono ancora alla propria parte sana, perbene. È bello sentire che riusciamo a sostenere una realtà che reputiamo seria, unendoci nel far superare al nostro Paese i profondi limiti che ha sulla ricerca. Sono risultati: il nome di un male trovato, una cura avviata. Ecco, l’idea che ci sia un mondo scientifico che non abbandona, non lascia soli, esclude strade, ne prende delle altre il tutto per stare dalla parte di chi si trova a subire una malattia impossibile, indiagnosticabile. Questo è lo spirito a cui ho aderito».